domenica 18 aprile 2010

IL CAMMINO DI SANTIAGO A GENOVA TERZA PARTE





IL "CAMMINO DI SANTIAGO DI COMPOSTELA "A GENOVA

La ricerca della via della salvezza e della fede di fronte allo spettacolo del paesaggio e alla luce dell'arte
Tre tappe del Cammino di Santiago di Compostela in mezzo alla città di Genova,fermandosi a pregare e a riflettere negli antichi oratori e chiesette lungo il percorso.
Sabato 27 marzo
Da S.Erasmo di Quinto a S.Rocco di Vernazza per la castagna e S.Bartolomeo di Quarto
Domenica 28 marzo
Dall'Anime e Cintura di S.Vincenzo a S.Giovanni di Prè per San Giacomo delle Fucine e Della Marina
Lunedì 29 marzo
Dall'Assunta di Prà a S.Limbania per S.Ambrogio ,S.Erasmo eMorte e Orazione di Voltri

LE CONFRATERNITE
Breve storia delle "Casacce"
L'origine delle Confraternite a Genova è antichissima e si perde nella notte dei tempi. Il periodo più noto parte con il movimento dei Disciplinanti; a Genova troviamo una confraternita intitolata a S. Antonio già nel 1232, nella Chiesa di S. Domenico (dove oggi è Piazza De Ferrari). Il grande movimento dei Disciplinanti sorse nel 1260, suscitato da Ranieri Fasani di Borgo S. Sepolcro in Perugia, il quale, partito da Perugia vestito di sacco, con una disciplina in mano si batteva implorando misericordia e pace, andando per le vie e piazze infervorando tutti a seguirlo. La lunga processione dei Disciplinanti passo in altre città: Spoleto, Imola, Bologna, Modena, Reggio, Parma, Piacenza e Tortona dove, condotti da Sinibaldo Opizzoni, arrivarono a Genova; ne riporta il racconto il Beato Iacopo da Varagine, contemporaneo ai fatti, ed in seguito Arcivescovo di Genova.

Nel 1399 un altro grande movimento confraternale arrivò a Genova, erano i Bianchi di Provenza, entrarono in città il 5 luglio tutti vestiti di bianco; anche loro imploravano misericordia e pace, le processioni erano aperte dai confratelli che portavano il Crocifisso. Le Confraternite a Genova, in quell'epoca, furono animate da due grandi Santi: S. Vincenzo Ferreri e S. Bernardino da Siena.

Altre Confraternite sorsero nei secoli successivi:
- quelle del S. Rosario dopo la battaglia di Lepanto, volute dai Padri Domenicani e dall'Arcivescovo, il Cardinale Stefano Durazzo, per la divulgazione del S. Rosario
- quelle del S. Sacramento per l'adorazione all' Eucarestia
- quelle della S.S. Trinità per la liberazione degli schiavi cristiani
- la Misericordia per l'assistenza ai carcerati
- Morte e Orazione per il suffragio e sepoltura dei defunti.

Nei secoli le Confraternite genovesi ebbero gran peso nella vita sociale in particolare durante le calamità naturali o eventi bellici, operarono sempre con carità, fondando ospedali e lazzaretti, provvedendo alle sepolture, curando la mutua assistenza in favore dei più bisognosi, come ad esempio a Gavi dove la Confraternita dei Bianchi aveva il monte del grano per distribuire i semi ai contadini più poveri e quella dei Turchini gestiva il monte dei pegni.

Gli Oratori furono chiamati anche Casacce, perché in essi avevano sede più compagnie. Le Confraternite sono sempre state dedicate alla S Croce, alla Beata Vergine Maria o ad un Santo, fu famosa la Compagnia dei 72 Discepoli.

Anche le corporazioni di mestiere avevano la loro sede negli Oratori, assieme alle Compagnie. Le Confraternite erano il punto di incontro tra il clero e il popolo e in particolare modo appoggiarono la Chiesa durante la Controriforma. L'impegno principale delle Confraternite è sempre stato quello spirituale, caritativo e sociale, come ben si può notare consultando gli Antichi Statuti. Lo Statuto fondamentale per le Confraternite, dopo il Concilio di Trento, fu emanato a Milano nel 1573 dal Cardinale Carlo Borromeo e introdotto in Genova dall'Arcivescovo Card. Antonio Sauli nel 1587, con l'aggiunta di alcuni capitoli.

Durante i secoli le nostre Confraternite si arricchirono di un grande patrimonio artistico quale: statue, quadri, vesti, argenterie e oratori, dove lavorarono i migliori artisti del tempo. Purtroppo le confraternite genovesi non furono esenti da calamità belliche abbattutesi in vari tempi, in particolare durante l'era napoleonica, in cui furono soppresse e depredate da ogni bene di loro proprietà.

Oggi le nostre Confraternite sono attive come sempre, oltre ad avere una reciproca collaborazione, sono inserite nel contesto Parrocchiale, collaborano con i Rev. Parroci, in particolare modo nelle feste Patronati. Degni di nota sono le processioni ed i pellegrinaggi ai vari Santuari con gli artistici Crocifissi.

Tutte le Confraternite dell'Arcidiocesi sono soggette allo Statuto Generale Diocesano, approvato dall'Arcivescovo di Genova S. E. Cardinale Tarcisio Bertone, con Decreto Arcivescovile in data 3 Aprile 2005. Le Confraternite dell'Arcidiocesi di Genova sono tutte iscritte alla Confederazione Nazionale delle Confraternite, organismo costituito dalla C.E.I. Tutte le Confraternite Diocesane sono soggette e fanno capo al Priorato, siano esse definite tali, compagnie, congregazioni o simili. Il Priorato nei confronti delle Confraternite è organismo di: direzione, vigilanza, coordinamento e disciplina.

LE CASACCE
La Casassa (Casaccia) è un’antica tradizione genovese e ligure legata a uno o più santi e a un ötöio (oratorio). Nata dalla rivalità tra le varie Confraternite, è diventata nel tempo simbolo di una sfarzosa procescion (processione). I casassanti (appassionati di Casasse) attendono con ansia a sciortia da Casassa (l’uscita della Casaccia). Per primo appare il confaon (gonfalone), poi a cascia do Santo (la cassa del Santo), antica e di pregevole fattura. Tutti i confræ (confratelli) hanno la cappa, mentre il priô (priore) e i responsabili della Casassa indossano una cappa a strascico detta pastorale. L’oggetto più atteso è il grande Cristo ligneo, gianco (bianco) oppure möo (moro, nero). L’incrocio dei bracci della croce si chiama croxêa, gli ornamenti ai lati e in alto (d’argento, a fiori, tintinnanti) si chiamano canti, l’iscrizione di Cristo si chiama titolo, la figura di Cristo si dice imàgine, il panno che copre il ventre di Cristo è detto manto. Il crocifisso, pesantissimo, è portato dal portòu da Cristo (portatore di Cristo) che usa, per scaricarne il peso sulle spalle, un’imbracatura di cuoio che termina con un bossolo, detto cròcco, dove si mette il pesin (piede della croce). Per proteggersi il corpo i portoei indossano una pansêa (panciera). Il portòu indossa il tabarin (mantellina) che varia a seconda della croce che porta. Per spostare la croce da un portòu all’altro si usa il martinente (impugnatura dietro la croce) e chi fa l’operazione è detto stramuòu (tramutatore). Infine chi brasezza (si sbraccia) tenendo con abilità in equilibrio la croce appoggiata a una spalla è detto brasezòu.

Pescòu da canna, caciòu da vischio, portòu da Cristo, trei belinoin coscì no n’ò mai visto!

ORATORIO DI S.ERAMO IN QUINTO AL MARE
La Compagnia di S.Erasmo come risulta da un documento ufficiale del 1582 definisce l'oratorio di S.Erasmo come "Casaccia S.Erasmi",nel 1716 si unì con la "Compagnia dei Settantadue e poi si aggregarono all'Arciconfraternita Mortis et Orationis di Roma ",assumendo la denominazione "CONFRATERNITA MORTIS ET ORATIONIS DI S.ERASMO IN QUINTO ALMARE


Sant'Erasmo - Martire del IV secolo
Erasmo è nome di origine greca ed ha il significato, assai bello, di " desiderato " o meglio " amato ".
Sant'Erasmo fu Vescovo di Formia, in Campania, e sul suo conto esistono favolose leggende nel quadro della persecuzione di Diocleziano, agli inizi del IV secolo. Si dice infatti che fosse Vescovo in Asia Minore, nella Siria, e che per sfuggire ai persecutori venisse rapito da un angelo e trasportato a volo nell'Illiria, cioè nell'odierna Dalmazia. Qui convertì moltissimi pagani, prima di essere scoperto e catturato. E di nuovo un angelo lo salvò in volo, trasportandolo sulle coste della Campania. Divenne allora Vescovo di Formia, ma per breve tempo. Morì di lì a poco per le ferite riportate nei due supplizi e perciò ebbe il titolo di Martire.

L'unico dato sicuro di questa fantasiosa vicenda è la presenza, a Formia, delle reliquie di Sant'Erasmo. Quando, nel IX secolo, la città fu distrutta dai Saraceni, le reliquie vennero trasferite nella non lontana Gaeta, e di questa città Sant'Erasmo è ancora venerato come Patrono.

La fantasia devota arricchì la sua figura di particolari suggestivi. Tra le " crudelissime torture " che il martirologio gli attribuisce, s'immaginò per esempio, che al Martire venisse squarciato il ventre e fossero strappati gli intestini. Tale raccapricciante supplizio valse a Sant'Erasmo fama di protettore nei mali del ventre e dei visceri, non escluse le doglie del parto.

Per rendere più truce ed evidente la scena del supplizio, gli artisti vi raffigurarono un argano, attorno al quale il carnefice avvolgeva, come una fune, i visceri strappati al Santo.

I devoti della Campania erano quasi tutti marinai. Sui loro navigli non mancavano gli argani sui quali venivano avvolte le gomene. Parve così che Sant'Erasmo si trovasse a proprio agio sulle navi, e venne senz'altro assunto tra i protettori dei marinai, numerosi quanto lo sono i pericoli del mare.

A bordo, il nome di Erasmo si mutò in quello di Elmo, ed ebbe un curioso seguito. Le spettrali fiammelle che si vedono, o si vedevano un tempo, sugli alberi e i pennoni delle navi, prima o dopo le tempeste di mare, e che sembra siano dovute a scariche di elettricità statica, vennero dette comunemente " fuochi di Sant'Elmo ". Si volle, cioè, attribuirle alla protezione che il Santo sicuramente non avrebbe fatto mancare ai marinai, trasformando la loro nave in una specie di immenso candelabro, implorante la salvezza contro le forze scatenate della natura.
Nell'oratorio sono conservati dipinti di S.Rocco,sull'altare statua lignea del santo,un dipinto di S.Isidoro,un altare della Madonna della Pace,polittico di S.Erasmo,dipinto di S.Michele Arcangelo,dipinto settecentesco di Cristo Trionfante con S.Erasmo e altri Santi,un crocifisso rinascimentale ,con l'effige di Cristo posta su una antica Croce di legno tondeggiante di limone.
Lasciato l'Oratorio ci ncamminiamo lungo una salita che ci porta pa percorrere la Via Antica di Quinto I devoti della Campania erano quasi tutti marinai. Sui loro navigli non mancavano gli argani sui quali venivano avvolte le gomene. Parve così che Sant'Erasmo si trovasse a proprio agio sulle navi, e venne senz'altro assunto tra i protettori dei marinai, numerosi quanto lo sono i pericoli del mare.

A bordo, il nome di Erasmo si mutò in quello di Elmo, ed ebbe un curioso seguito. Le spettrali fiammelle che si vedono, o si vedevano un tempo, sugli alberi e i pennoni delle navi, prima o dopo le tempeste di mare, e che sembra siano dovute a scariche di elettricità statica, vennero dette comunemente " fuochi di Sant'Elmo ". Si volle, cioè, attribuirle alla protezione che il Santo sicuramente non avrebbe fatto mancare ai marinai, trasformando la loro nave in una specie di immenso candelabro, implorante la salvezza contro le forze scatenate della natura.Ci inseriamo sulla via Romana della Castagna
Deve il nome ai Castagna, antichi proprietari di vaste aree della zona

sabato 17 aprile 2010

LIGURIA RELIGIOSA


Un viaggio attraverso i secoli da Sarzana a Ventimiglia, tra centinaia di santuari, abbazie, monumenti e chiese, lungo antichi itinerari sulle orme dei pellegrini della Via Francigena e del Cammino di Santiago de Compostela
Un viaggio attraverso i secoli da Sarzana a Ventimiglia, tra centinaia di santuari, abbazie, monumenti e chiese, lungo antichi itinerari sulle orme dei pellegrini della Via Francigena e del Cammino di Santiago de Compostela
Un turismo, quello religioso, che comprende tutte le fasce di età , è molto praticato dai giovani e, dal Giubileo del 2000, sembra non conoscere crisi, come è accaduto a quello dei comuni vacanzieri.
Tanto che gli analisti del settore, anche nel 2010, prevedono che la controtendenza continui, con nuovi incrementi e il segno più per il comparto.
DA LUNI AL CONFINE FRANCESE E OLTRE FINO A NIZZA:
1 TAPPA IN BICICLETTA
DA LUNI A LEVANTO
2 TAPPA
DA LEVANTO A A GENOVA
3 TAPPA
GENOVA FINALE LIGURE
4 TAPPA
FINALE LIGURE SANREMO
5 TAPPA
SANREMO NIZZA

DA LUNI A LEVANTO Km.72
Partendo dal sito archeologico su 21SP fino a FIUMARETTA -su 423 e su 10SP fino a BOTTAGNA su 330 sino alla MADONNA DEL BUON VIAGGIO, si continua su 330 a LA SPEZIA su 530 e su 370 fino a VOLASTRA -Su pedemontana delle 5TERRE e su 38SP sino al SANTUARIO DI SOVIORE Si continua sulla 38SP.,370 e 43SP sino a LEVANTO sino all'ORATORIO DI SAN GIACOMO.

DA LEVANTO A GENOVA Km.90
Lasciata LEVANTO si prende la 332 e poi AURELIA sino a SESTRI LEVANTE sino a GENOVA su AURELIA

DA GENOVAA FINALE LIGURE Km.73
Da GENOVA su Aurelia sino a VARAZZE ,VADO LIGURE ,FINALE LIGURE

DA FINALE LIGURE A SANREMO Km.76

Da FINALE ad ALBENGA a DIANO MARINA,SANREMO sempre percorrendo l'AURELIA


DA SANREMO A VENTIMIGLIA E NIZZA Km.70
Percorrendo sempre l'AURELIA si arriva al confine distato MENTON,MONTECARLO .NIZZA

Santiago de Compostela: la città si prepara a ricevere il Papa


E' con “enorme speranza” che gli abitanti di Santiago de Compostela si preparano a ricevere Benedetto XVI, che una settimana fa ha annunciato la sua visita a questa città e a Barcellona agli inizi di novembre.

Radio Vaticana - Sánchez Bugallo, sindaco di Santiago de Compostela, si è recato a Roma per far sì che più pellegrini visitino il santuario dell'apostolo Giacomo durante l'Anno Giubilare, o “Anno Giacobeo”. In alcune dichiarazioni all'agenzia Zenit, Sánchez Bugallo ha affermato che il Municipio ha ricevuto la notizia della visita del Pontefice come “un grande impulso e sostegno per quest'Anno”. La cattedrale di Santiago de Compostela, dove secondo la tradizione riposano i resti di San Giacomo, celebra l'Anno Giubilare ogni volta che il 25 luglio, giorno della festa del santo, cade di domenica, come avviene quest'anno. L'Anno successivo si celebrerà nel 2021. Questa tradizione è seguita dal 1122. “Il Giubileo è già iniziato, abbiamo aperto la Porta Santa della nostra cattedrale il 31 dicembre, ma sappiamo che l'alta stagione inizierà nella Settimana Santa”, ha detto il sindaco. “L'Anno Giubilare porta sempre una maggiore affluenza di pellegrini”. Per questo motivo, ha sottolineato, è stata creata una commissione che coordina gli sforzi e le attività culturali e religiose con l'arcivescovado. Tra il X e l'XI secolo sono iniziati i pellegrinaggi a Santiago de Compostela per varie vie: la più conosciuta è quella francese, che arriva in Spagna attraverso i cammini di Roncisvalle e Jaca e poi passa per Navarra, Aragona, La Rioja, Castiglia e León per attraversare la Galizia e giungere a Santiago. Lungo il tragitto sono stati costruiti ostelli per i pellegrini. Nel XVI secolo il numero dei pellegrini ha iniziato a diminuire notevolmente. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, alcuni sacerdoti e laici sono tornati a promuovere questo pellegrinaggio, e negli anni Settanta e Ottanta il numero dei pellegrini ha iniziato ad aumentare di nuovo. Nel 1982 Giovanni Paolo II ha visitato Santiago, e questo fatto ha dato un nuovo impulso al Cammino. Nel 1989 la città ha ospitato la Giornata Mondiale della Gioventù, e in quell'occasione il Cammino è stato dichiarato il primo itinerario culturale europeo, ricorda il sindaco Sánchez. Nel 1993 c'è stato un boom di pellegrini con una novità importante: “è stata coinvolta molta gente di altre confessioni: evangelici, e anche buddisti e persone che non hanno una confessione definita ma comprendono che il Cammino è un'opportunità per riconciliarsi e riflettere”, ha aggiunto.

venerdì 16 aprile 2010

via pulchritudinis


due elementi dell'arte romanica e gotica utili anche per noi. Il primo:i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell'anima religiosa che li ha ispirati. Un artista, che ha testimoniato sempre l'incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che "i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia". Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l'arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l'Invisibile.
l secondo elemento:la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos'è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant'Agostino: "Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell'aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l'ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell'acqua, che camminano sulla terra, che volano nell'aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l'ha creata, se non la Bellezza Immutabile?" (Sermo ccxli, 2: pl 38, 1134).
L

PRIMO CAMMINO DELLA RINASCITA DELLA VIA DEL TAGLIAMENTO

Domenica 28 giugno si è svolto il “primo cammino della rinascita della Via del Tagliamento”: circa 35 km percorsi a piedi sulle orme dei cammini medievali, da Venzone all’antico hospitale di San Giovanni di Gerusalemme a San Tomaso di Majano, attraverso Gemona, Osoppo e Cimano lungo il corso del fiume.
Settanta sono i pellegrini provenienti da tutto il triveneto oltre che dalla vicina Slovenia, ritrovati per ripercorrere a piedi dopo diversi secoli la Via del Tagliamento. Questa è parte dell’antica Via d’Allemagna che collegava i paesi Baltici con i porti dell’Adriatico e in particolare
con Venezia, e da lì via mare per la Terrasanta, o ancora a piedi verso Roma e Santiago de Compostella. Dopo circa quattro secoli riprendono a scorrere i pellegrini che attendono accoglienza a San Giovanni di Gerusalemme, uno fra i più antichi spedali superstiti della rete ospitaliera medievale europea, prima istituzione degli ospedali gratuiti. Assicurando ospitalità e cure gratuite garantiva a tutti la possibilità di mettersi in cammino, di ampliare le conoscenze, di scambiare cultura dando l’impulso alla grande ripresa europea del tardo medioevo.
Questo cammino rientra tra le iniziative dell’amministrazione comunale di Majano nell’ambito del progetto di recupero del complesso storico di San Giovanni e della sua etica funzione, e ha trovato l’ampia collaborazione del Borgo di San Tomaso e del Comune di Majano, nonché delle associazioni venete e friulane dedicate al pellegrinaggio oltre che dei comuni attraversati dal cammino.
I pellegrini provenienti da lontano, una trentina, avevano già trovato accoglienza dal sabato 27 a Venzone presso la chiesa di San Pietro a Stazione di Carnia, a cura della parrocchia e della comunità. Dopo la visita con Aldo Di Bernardo al duomo di Venzone, straordinario esempio di architettura
gotica del XIV sec., don Roberto Bertossi celebra la santa messa in lingua friulana che si rivela come una musica in perfetta armonia con la struttura tormentata dell’abside, ripristinata dopo il sisma del ‘76 con un intervento straordinario di restauro per anastilosi.
Ne segue la cena a Carnia, semplice genuina preparata insieme, e sempre insieme saremo anche nella sala diventata più tardi camerone comunitario. Il sonno, in sacchi a pelo su materassino in un clima sereno di condivisione, prima riscoperta di essenzialità, in pochi minuti ti ritrovi di nuovo dentro la storia, sono lontane e non rimpiante le comodità individuali, personalizzate, illusorie.
All’alba sveglia alle 5, siamo in settanta davanti al duomo, partenza alle 6, c’è anche il sindaco di Majano, molti sono pellegrini con esperienza dei camini majores, accanto a persone interessate forse alla ricerca, alcune si stanno preparando per Santiago, tutti
comunque decisi ad arrivare fino a San Tomaso a prescindere dalle previsioni meteorologiche. Ci fermiamo dopo pochi minuti alla splendida chiesa dei Santi Anna e Giacomo a Venzone, aperta gentilmente dalla custode per la
preghiera a San Giacomo protettore del cammino. Alla chiesa era annesso nel medioevo un romitorio, posto di sosta per pellegrini. A Venzone nel medioevo c’era già il Pio Istituto Elemosiniere (ancora oggi importante ospizio) e il convento degli Agostiniani presso la chiesa di San Giovanni. Più a sud, a Ospedaletto l’hospitale dei Cavalieri di Santo Spirito.
Si procede speditamente in salita fino a Sella Sant’Agnese, lì è completa la panoramica su Gemona, Venzone e sul greto del Tagliamento. Dopo la sosta breve alla chiesa omonima del XII sec. si arriva tra sentieri e stradine, al centro di Gemona verso 8.30 dove incontriamo la nostra guida Daniela Bierti che ci parla della storia di Gemona e del suo celebre duomo romanico–gotico del XIII-XIV ben restaurato, con la facciata monumentale e lo splendido rosone originale che lo rende unico. All’interno, la navata centrale deformata, e sulla destra il celebre Cristo del terremoto, il crocifisso ligneo del XV oggi senza più braccia, senza mento tutto ferito dai crolli del ’76, anche lui, come le stesse città di Gemona, Venzone, Osoppo Majano e altre. E’ qui che il nostro cammino ha il suo più intenso e doloroso momento di ricordo. Vicino al duomo l’ex-hospitale di S. Michele e, un po’ a sud, la chiesa e il romitorio di Santa Maria La Bella, non ancora ricostruita. E’ stato molto apprezzato il materiale culturale informativo distribuito a tutti i pellegrini dalla locale pro loco di Gemona. Gemona e Venzone erano importanti centri di traffici commerciali e, fino all’avvento di Venezia, costituivano una doppia dogana con l’istituto del Niederlech ("scarico"), centri di smistamento di cereali, metalli, e punto di incontro della via del sale da nord (via Salisburgo) e della “via dell’ambra” o “d’Allemagna” da nord-est. Gestivano anche il flusso dei pellegrini indirizzandoli verso Aquileia o, seguendo la via del Tagliamento verso Osoppo, e San Tomaso, San Daniele... fino all’Adriatico. Scendiamo verso Osoppo dove arriviamo alle 11 e, dopo una breve sosta sull’altopiano della
Fortezza, sostiamo presso l’antica chiesa di San Giacomo dove ci viene offerto un gradito rinfresco a cura del Comune. Alla chiesa parrocchiale di Santa Maria ammiriamo l’affresco del miracolo dell’impiccato e del gallo: il miracolo più noto ed amato dai pellegrini compostellani e così diffuso lungo il cammino di Santiago di Compostella che si trova spesso nelle chiese lungo le vie di pellegrinaggio di tutta Europa così come nella nostra regione. E’ questa la migliore testimonianza del flusso del pellegrinaggio compostellano.
Dopo una sosta pranzo al parco della colonia proseguiamo verso il Tagliamento con deviazione al colle di San Rocco accompagnati da Daniele Bertossi guida locale CAI. Ci accompagna in alto a cogliere la visione completa del Tagliamento da Gemona a Pinzano. Qui il fiume, senza rettifiche antropiche, si presenta nella sua forma caratteristica a canali intrecciati tipica dei fiumi allo stato primitivo naturale: il Tagliamento costituisce ormai il più significativo
esemplare e modello unico in Europa. Arriviamo alla chiesetta medievale di San Rocco; anche ad essa come a San Giacomo era collegato un romitorio sosta per pellegrini, almeno dal XIV. Siamo ormai sul sentiero che costeggia il greto del fiume: le “sorgive di Bars”, rogge di acque trasparenti che si raggruppano e tornano al corso principale del fiume. Tra questi corsi d’acqua, si snoda il percorso scelto per il cammino.
Ci fermiamo per una sosta meritata e rinfrescante dopo quasi trenta km di cammino su una spiaggetta dove vediamo volteggiare i grifoni della vicina riserva di Cornino. Il cammino prosegue poi a sud verso San Tomaso, attraverso il ponte della ferrovia Gemona-Sacile. Ci arriviamo con un percorso attraverso stradine e sentieri tra
boschi, piccoli guadi e ponticelli che si snodano tra i prati estesi di Osoppo, luogo dell’antico grande lago. Dal ponte della ferrovia passando attraverso un boschetto arriviamo alla casa della signora Olimpia, un dono del cammino, dato che ha falciato il sentiero e ci ha atteso preparando a sorpresa un ristoro provvidenziale.
Sulla strada di Susans c’è anche il ristoro programmato, portato dal gruppo di accoglienza di San Tomaso. Ultimo sforzo la salita ai “Prats de Mont” ultimo sguardo dall’alto sul Tagliamento e poi giù attraverso stradine e sentieri finalmente a San Tomaso, all’antico hospitale di San Giovanni di Gerusalemme.
La sospirata sosta arriva alla fine della giornata di cammino sulle orme e con lo stesso spirito di migliaia di pellegrini medievali. Ci attendono all’antica chiesa di San Giovanni oltre al trecentesco grande affresco di San Cristoforo, (scudo contro la morte improvvisa), parte degli abitanti del borgo con don Alfonso parroco di Susans, il sindaco di Majano Claudio Zonta e l’assessore alla cultura Maria Teresa Garzitto. Padre Leone Tagliaferro fondatore di associazioni di pellegrini, è il padre spirituale del pellegrinaggio con particolare riguardo a quello Compostellano, ed ha officiato la messa e dato il benvenuto ai pellegrini. Siamo arrivati.
L’accoglienza finale è presso la sala parrocchiale con una cena preparata da un gruppo generoso di volontari di San Tomaso, giovani ed esperti cuochi. Un ringraziamento a queste persone disponibili, le risorse del borgo. Un ringraziamento anche a Renato Rossetti, Paolo Tiveron, Giuseppe Pojana, Luciano Zucchiatti e a Nino Candusso per la collaborazione nella logistica e a Marco Bregant, per la collaborazione nello studio del percorso.
Qualche piccolo guado, le salite, la grande fatica, la sete, ma anche l’accoglienza, il ristoro, le guide culturali volontarie, servizi sempre gratuiti o comunque aperti ai donativi tendono a ricreare il clima di condivisione che favorisce la solidarietà e l’apertura facendo capire almeno in parte, almeno per un giorno, la funzione importante di San Giovanni; questo reperto superstite della rete medievale di siti ospitalieri realizzata in pieno feudalesimo in Europa sul modello del primo hospitale di Gerusalemme.
Il pellegrinaggio si sa è metafora della vita dell’uomo; è soluzione semplice e naturale, rispettata da tutte le culture e religioni, è ricerca di essenzialità condivisibile, è il riscoprire il mondo alla velocità naturale propria dell’uomo, quella del cammino a piedi, la sola che rende possibile l’osservazione della natura da dentro la natura e lo studio della storia da dentro la storia, rende naturale la solidarietà e il reciproco incoraggiamento, semplice la comunicazione, fecondo il ragionamento e ricco lo scambio culturale.
Marino Del Piccolo

lunedì 12 aprile 2010

SANTUARI E PELLEGRINAGGI

SANTUARI E PELLEGRINAGGI

261. Il santuario, sia esso dedicato alla santissima Trinità, a Cristo Signore, alla beata Vergine, agli Angeli, ai Santi o ai Beati, è forse il luogo in cui i rapporti tra Liturgia e pietà popolare sono più frequenti ed evidenti. "Nei santuari, si offrano più abbondantemente ai fedeli i mezzi della salvezza, annunciando con zelo la Parola di Dio, favorendo convenientemente la vita liturgica, in specie con l’Eucaristia e la celebrazione della Penitenza, nonché coltivando forme approvate di pietà popolare".[375]

In stretto rapporto con il santuario è il pellegrinaggio, anch’esso espressione diffusa e caratteristica della pietà popolare.

Nel nostro tempo l’interesse per i santuari e la partecipazione ai pellegrinaggi, lungi dall’essersi affievoliti a causa del fenomeno del secolarismo, incontrano un grande favore presso i fedeli.

Sembra pertanto conveniente, in conformità con gli scopi di questo Documento, offrire alcune indicazioni perché nell’attività pastorale dei santuari e nello svolgimento dei pellegrinaggi sia instaurato e favorito un corretto rapporto tra azioni liturgiche e pii esercizi.

Il Santuario

Alcuni principi

262. Secondo la rivelazione cristiana il supremo e definitivo santuario è Cristo risorto (cf. Gv 2, 18-21; Ap 21, 22), attorno al quale si raduna e organizza la comunità dei discepoli, che a sua volta è la nuova casa del Signore (cf. 1 Pt 2, 5; Ef 2, 19-22).

Dal punto di vista teologico il santuario, che non di rado è sorto da un moto di pietà popolare, è un segno della presenza attiva, salvifica del Signore nella storia e un luogo di sosta dove il popolo di Dio, pellegrinante per le vie del mondo verso la Città futura (cf. Eb 13, 14), riprende vigore per proseguire il cammino.[376]

263. Il santuario infatti, come le chiese, ha una grande valenza simbolica: è icona della "dimora di Dio con gli uomini" (Ap 21, 3) e rinvia al "mistero del Tempio" che si è compiuto nel corpo di Cristo (cf. Gv 1, 14; 2, 21), nella comunità ecclesiale (cf. 1 Pt 2, 5) e nei singoli fedeli (cf. 1 Cor 3, 16-17; 6, 19; 2 Cor 6, 16).

Agli occhi della fede i santuari sono:

- per la loro origine, talvolta, memoria di un evento ritenuto straordinario che ha determinato il sorgere di manifestazioni di duratura devozione, o testimonianza della pietà e della riconoscenza di un popolo per i benefici ricevuti;

- per i frequenti segni di misericordia che vi si manifestano, luoghi privilegiati dell’assistenza divina e dell’intercessione della beata Vergine, dei Santi o dei Beati;

- per la posizione, spesso elevata e solitaria, per la bellezza ora austera ora amena, dei luoghi in cui sorgono, segno dell’armonia del cosmo e riflesso della divina bellezza;

- per la predicazione che vi risuona, richiamo efficace alla conversione, invito a vivere nella carità e a incrementare le opere di misericordia, esortazione a condurre una vita improntata alla sequela di Cristo;

- per la vita sacramentale che vi si svolge, luoghi di consolidamento nella fede e di crescita nella grazia, di rifugio e di speranza nell’afflizione;

- per l'aspetto del messaggio evangelico che esprimono, peculiare interpretazione e quasi prolungamento della Parola;

- per l’orientamento escatologico, monito a coltivare il senso della trascendenza e a dirigere i passi, attraverso le strade della vita temporale, verso il santuario del cielo (cf. Eb 9, 11; Ap 21, 3).

"Sempre e dappertutto, i santuari cristiani sono stati o hanno voluto essere segni di Dio, della sua irruzione nella storia. Ognuno di essi è un memoriale del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione".[377]

Riconoscimento canonico

264. "Per santuario si intendono una chiesa o un altro luogo sacro, a cui, per speciali motivi di pietà, con l’approvazione dell’Ordinario del luogo, i fedeli fanno pellegrinaggio in grande numero".[378]

Condizione previa perché un luogo sacro sia canonicamente considerato santuario diocesano, nazionale o internazionale è l’approvazione rispettivamente del Vescovo diocesano, della Conferenza dei Vescovi, della Santa Sede. L’approvazione canonica costituisce un riconoscimento ufficiale del luogo sacro e della sua specifica finalità, che è quella di accogliere i pellegrinaggi del popolo di Dio che vi si reca per adorare il Padre, professare la fede, riconciliarsi con Dio, con la Chiesa e con i fratelli e implorare l’intercessione della Madre del Signore o di un Santo.

Non si deve dimenticare tuttavia che molti altri luoghi di culto, spesso umili – chiesette nelle città o nelle campagne – svolgono in ambito locale, pur senza riconoscimento canonico, una funzione simile a quella dei santuari. Anche essi fanno parte della "geografia" della fede e della pietà del popolo di Dio,[379] di una comunità che dimora in un determinato territorio e che, nella fede, è in cammino verso la Gerusalemme celeste (cf. Ap 21).

Il santuario luogo di celebrazioni cultuali

265. Il santuario ha una eminente funzione cultuale. I fedeli vi si recano soprattutto per partecipare alle celebrazioni liturgiche e ai pii esercizi che ivi si svolgono. Questa riconosciuta funzione cultuale del santuario non deve tuttavia oscurare nella coscienza dei fedeli l’insegnamento evangelico secondo cui il luogo non è determinante per il genuino culto al Signore (cf. Gv 4, 20-24).

Valore esemplare

266. I responsabili dei santuari facciano sì che la Liturgia che si svolge in essi sia esemplare per la qualità delle celebrazioni: "Tra le funzioni riconosciute ai santuari, anche dal Codice di diritto canonico, è l’incremento della Liturgia. Esso non va inteso tuttavia come aumento numerico delle celebrazioni, ma come miglioramento della qualità delle medesime. I rettori dei santuari sono ben consapevoli della loro responsabilità in ordine al conseguimento di questo scopo. Comprendono infatti che i fedeli, che giungono al santuario dai luoghi più svariati, devono ripartire confortati nello spirito ed edificati dalle celebrazioni liturgiche che in esso si compiono: per la loro capacità di comunicare il messaggio salvifico, per la nobile semplicità delle espressioni rituali, per l’osservanza fedele delle norme liturgiche. Sanno inoltre che gli effetti di un’azione liturgica esemplare non si limitano alla celebrazione compiuta nel santuario: i sacerdoti e i fedeli pellegrini sono portati infatti a trasferire nei luoghi di provenienza le esperienze cultuali valide vissute nel santuario".[380]

La celebrazione della Penitenza

267. Per molti fedeli la visita al santuario costituisce un’occasione propizia, spesso ricercata, per accostarsi al sacramento della Penitenza. È necessario pertanto che siano curati i vari elementi che concorrono alla celebrazione del sacramento:

- il luogo della celebrazione: oltre ai confessionali tradizionali posti in chiesa, nei santuari molto frequentati è auspicabile che ci sia un luogo riservato alla celebrazione della Penitenza, che si presti anche a momenti di preparazione comunitaria e a celebrazioni penitenziali, e nel rispetto delle norme canoniche e della riservatezza richiesta dalla confessione, offra al penitente l’agio di un dialogo con il sacerdote confessore.

- La preparazione al sacramento: in non pochi casi i fedeli hanno bisogno di essere aiutati a compiere gli atti che sono parte del sacramento, soprattutto a orientare il cuore a Dio con una sincera conversione, "poiché da essa dipende la verità della Penitenza".[381] Si prevedano pertanto incontri di preparazione, quali sono proposti nell’Ordo Paenitentiae,[382] in cui, attraverso l’ascolto e la meditazione della Parola di Dio i fedeli siano aiutati a celebrare fruttuosamente il sacramento; o almeno si pongano a disposizione dei penitenti sussidi idonei, che li guidino non solo a preparare la confessione dei peccati, ma soprattutto a concepire un sincero pentimento.

- La scelta dell’azione rituale, che conduca i fedeli a scoprire la natura ecclesiale della Penitenza; in questa luce la celebrazione del Rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale (seconda forma), debitamente organizzata e preparata, non dovrebbe costituire un’eccezione, ma un fatto normale, previsto soprattutto per alcuni tempi e ricorrenze dell’Anno liturgico. Infatti "la celebrazione comune manifesta più chiaramente la natura ecclesiale della penitenza".[383] La riconciliazione senza confessione individuale integra e con assoluzione generale è una forma del tutto eccezionale e straordinaria, non interscambiabile con le due forme ordinarie e non giustificabile per la sola ragione di una grande affluenza di penitenti, quale accade in occasione di feste e pellegrinaggi.[384]

La celebrazione dell’Eucaristia

268. "La celebrazione dell’Eucaristia è il culmine e quasi il fulcro di tutta l’azione pastorale dei santuari";[385] ad essa pertanto occorre prestare la massima attenzione, perché risulti esemplare nello svolgimento rituale e conduca i fedeli a un incontro profondo con Cristo.

Spesso accade che più gruppi vogliano celebrare l’Eucaristia nello stesso tempo, ma separatamente. Ciò non è coerente con la dimensione ecclesiale del mistero eucaristico, dal momento che in tal modo la celebrazione dell’Eucaristia, invece di essere momento di unità e di fraternità, diviene espressione di un particolarismo che non riflette il senso di comunione e di universalità della Chiesa.

Una semplice riflessione sulla natura della celebrazione dell’Eucaristia, "sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità",[386] dovrebbe persuadere i sacerdoti che guidano i pellegrinaggi a favorire la riunione dei vari gruppi in una medesima concelebrazione, debitamente articolata e attenta – se è il caso – alla diversità delle lingue; in occasione di riunioni di fedeli di varie nazionalità è opportuno che siano cantati, in lingua latina e nelle melodie più facili, almeno le parti dell’Ordinario della Messa, specialmente il simbolo della fede e la preghiera del Signore.[387] Una tale celebrazione darebbe un’immagine genuina della natura della Chiesa e dell’Eucaristia, e costituirebbe per i pellegrini occasione di mutua accoglienza e di reciproco arricchimento.

La celebrazione dell’Unzione degli infermi

269. L’Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae prevede la celebrazione comunitaria del sacramento dell’Unzione nei santuari, soprattutto in occasione di pellegrinaggi di infermi.[388] Ciò è perfettamente consono alla natura del sacramento e alla funzione del santuario: è giusto che ove l’implorazione della misericordia del Signore è più intensa, là divenga più sollecita l’azione materna della Chiesa in favore dei suoi figli che per malattia o vecchiaia cominciano a trovarsi in pericolo.[389]

Il rito si svolgerà secondo le indicazioni dell’Ordo, per cui "se vi sono più sacerdoti, ognuno impone le mani e amministra l’unzione con la relativa formula ai singoli infermi di un gruppo; le orazioni invece vengono recitate dal celebrante principale".[390]

La celebrazione di altri sacramenti

270. Nei santuari, oltre all’Eucaristia, alla Penitenza e all’Unzione comunitaria degli infermi, si celebrano anche, più o meno frequentemente, altri sacramenti. Ciò esige che i responsabili dei santuari, oltre all’osservanza delle disposizioni impartite dal Vescovo diocesano:

- ricerchino una sincera intesa e una proficua collaborazione tra santuario e comunità parrocchiale;

- considerino attentamente la natura di ogni sacramento; ad esempio: i sacramenti dell’iniziazione cristiana, che richiedono una prolungata preparazione e operano il radicamento del battezzato nella comunità ecclesiale, dovrebbero di norma essere celebrati nella parrocchia;

- si assicurino che la celebrazione di ogni sacramento sia stata preceduta da una adeguata preparazione; i responsabili di un santuario non devono procedere alla celebrazione del sacramento del matrimonio se non risulta il permesso concesso dall’Ordinario o dal parroco;[391]

- valutino serenamente le molteplici e imprevedibili situazioni, per le quali non è possibile stabilire a priori norme rigide.

La celebrazione della Liturgia delle Ore

271. La sosta in un santuario, tempo e luogo favorevoli per la preghiera personale e comunitaria, costituisce un’occasione privilegiata per aiutare i fedeli ad apprezzare la bellezza della Liturgia delle Ore e ad associarsi alla lode quotidiana che, nel corso del suo pellegrinaggio terreno, la Chiesa eleva al Padre, per Cristo, nello Spirito Santo.[392]

I rettori dei santuari, pertanto, inseriscano opportunamente celebrazioni degne e festive delle Ore, specialmente delle Lodi e dei Vespri, nei programmi indicati ai pellegrini, suggerendo talora in tutto o in parte, anche un Ufficio votivo connesso col santuario. [393]

Lungo il pellegrinaggio e nelle tappe di avvicinamento alla meta, i sacerdoti che accompagnano i fedeli non manchino di proporre ad essi la preghiera di almeno qualche Ora dell’Ufficio Divino.

La celebrazione dei sacramentali

272. Fin dall’antichità esiste nella Chiesa l’uso di benedire persone, luoghi, cibi, oggetti. Nel nostro tempo tuttavia la prassi delle benedizioni, a motivo di usi inveterati e di concezioni profondamente radicate in alcune categorie di fedeli, presenta aspetti delicati. Ma essa costituisce una questione pastorale abbastanza marcata nei santuari, dove i fedeli, accorsi per implorare la grazia e l’aiuto del Signore, l’intercessione della Madre della misericordia o dei Santi, chiedono spesso ai sacerdoti le benedizioni più varie. Per un corretto svolgimento della pastorale delle benedizioni, i rettori dei santuari dovranno:

- procedere con pazienza all’applicazione progressiva dei principi stabiliti dal Rituale Romanum,[394] i quali perseguono fondamentalmente lo scopo che la benedizione costituisca un’espressione genuina di fede in Dio largitore di ogni bene;

- dare il giusto rilievo – per quanto possibile - ai due momenti che costituiscono la "struttura tipica" di ogni benedizione: la proclamazione della Parola di Dio, che dà significato al segno sacro, e la preghiera con cui la Chiesa loda Dio e implora i suoi benefici,[395] come richiamato anche dal segno di croce tracciato dal ministro ordinato;

- preferire la celebrazione comunitaria a quella individuale o privata ed impegnare i fedeli ad una partecipazione attiva e consapevole.[396]

273. È pertanto auspicabile che nei periodi di maggiore affluenza di pellegrini i rettori dei santuari predispongano, durante la giornata, particolari momenti per la celebrazione delle benedizioni;[397] in essi, attraverso un’azione rituale caratterizzata da verità e da dignità, i fedeli comprenderanno il senso genuino della benedizione e l’impegno ad osservare i comandamenti di Dio, che la "richiesta di una benedizione" comporta.[398]

Il santuario luogo di evangelizzazione

274. Innumerevoli centri di comunicazione sociale quotidianamente divulgano notizie e messaggi di ogni genere; il santuario è invece il luogo in cui costantemente viene proclamato un messaggio di vita: il "Vangelo di Dio" (Mc 1, 14; Rm 1, 1) o "Vangelo di Gesù Cristo" (Mc 1, 1), cioè la buona notizia che proviene da Dio ed ha come oggetto Cristo Gesù: egli è il Salvatore di tutte le genti, nella cui morte e risurrezione il cielo e la terra si sono riconciliati per sempre.

Al fedele che si reca al santuario devono essere proposti, direttamente o indirettamente, i punti fondamentali del messaggio evangelico: il discorso programmatico della montagna, l’annuncio gioioso della bontà e paternità di Dio nonché della sua amorosa provvidenza, il comandamento dell’amore, il significato salvifico della croce, il destino trascendente della vita umana.

Molti santuari sono effettivamente luogo di diffusione del Vangelo: nelle forme più svariate il messaggio di Cristo è trasmesso ai fedeli come monito alla conversione, invito alla sequela, esortazione alla perseveranza, richiamo alle esigenze della giustizia, parola di consolazione e di pace.

Non va dimenticata la cooperazione che molti santuari, sostenendo in vario modo le missioni "ad gentes", prestano all’opera evangelizzatrice della Chiesa.

Il santuario luogo della carità

275. La funzione esemplare del santuario si esplica anche nell’esercizio della carità. Ogni santuario infatti, in quanto celebra la presenza misericordiosa del Signore, l’esemplarità e l’intercessione della Vergine e dei Santi, "è per se stesso un focolare che irradia la luce e il calore della carità".[399] Nell’accezione comune e nel linguaggio degli umili "la carità è l’amore espresso nel nome di Dio".[400] Essa trova le sue concrete manifestazioni nell’accoglienza e nella misericordia, nella solidarietà e nella condivisione, nell’aiuto e nel dono.

Per la generosità dei fedeli e lo zelo dei responsabili, molti santuari sono luogo di mediazione tra l’amore di Dio e la carità fraterna da una parte e i bisogni dell’uomo dall’altra. In essi fiorisce la carità di Cristo e sembrano prolungarsi la sollecitudine materna della Vergine e la solidale vicinanza dei Santi, che si esprimono, per esempio:

- nella creazione e nel sostegno permanente di centri di assistenza sociale, quali ospedali, istituti per l’educazione di fanciulli bisognosi e case per persone anziane;

- "nell’accoglienza e ospitalità verso i pellegrini, soprattutto i più poveri, cui sono offerti, nella misura del possibile, spazi e strutture per un momento di ristoro;

- nella sollecitudine e premura verso i pellegrini anziani, infermi, portatori di handicap, ai quali si riservano le attenzioni più delicate, i posti migliori nei santuari; per essi si organizzano, negli orari più adatti, celebrazioni che, senza isolarli dagli altri fedeli, tengono conto della loro peculiare condizione; per essi si instaura una fattiva collaborazione con le associazioni che generosamente curano il loro trasporto;

- nella disponibilità e nel servizio offerto a tutti coloro che accedono al santuario: fedeli colti e incolti, poveri e ricchi, connazionali e stranieri".[401]

Il santuario luogo di cultura

276. Spesso il santuario è già, in se stesso, un "bene culturale": in esso infatti si riscontrano, quasi raccolte in sintesi, numerose manifestazioni della cultura delle popolazioni circostanti: testimonianze storiche e artistiche, caratteristici moduli linguistici e letterari, tipiche espressioni musicali.

Sotto questo profilo il santuario costituisce non di rado un valido punto di riferimento per definire l’identità culturale di un popolo. E allorché nel santuario si attua una armoniosa sintesi tra natura e grazia, pietà ed arte, esso può proporsi come espressione della via pulchritudinis per la contemplazione della bellezza di Dio, del mistero della Tota pulchra, della meravigliosa vicenda dei Santi.

Inoltre si va sempre più affermando la tendenza a fare del santuario uno specifico "centro di cultura", un luogo in cui si organizzano corsi di studio e conferenze, dove si assumono interessanti iniziative editoriali e si promuovono sacre rappresentazioni, concerti, mostre e altre manifestazioni artistiche e letterarie.

L’attività culturale del santuario si configura come una iniziativa collaterale per la promozione umana; essa si affianca utilmente alla sua funzione primaria di luogo per il culto divino, per l’opera di evangelizzazione, per l’esercizio della carità. In tal senso, i responsabili dei santuari veglieranno affinché la dimensione culturale non abbia il sopravvento su quella cultuale.

Il santuario luogo di impegno ecumenico

277. Il santuario, in quanto luogo di annuncio della Parola, di invito alla conversione, di intercessione, di intensa vita liturgica, di esercizio della carità è un "bene spirituale" condivisibile, in una certa misura e secondo le indicazioni del Direttorio ecumenico,[402] con i fratelli e le sorelle che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica.

In questa luce il santuario deve essere un luogo di impegno ecumenico, sensibile alla grave e urgente istanza dell’unità di tutti i credenti in Cristo, unico Signore e Salvatore.

Pertanto i rettori dei santuari aiutino i pellegrini a prendere coscienza di quell’"ecumenismo spirituale", di cui parlano il decreto conciliare Unitatis redintegratio[403] e il Direttorio ecumenico,[404] per il quale i cristiani devono avere sempre presente lo scopo dell’unità nelle preghiere, nella celebrazione eucaristica, nella vita quotidiana.[405] Perciò nei santuari dovrebbe essere intensificata la preghiera a tal fine in alcuni periodi particolari come la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e nei giorni tra l’Ascensione del Signore e la Pentecoste, nei quali si ricorda la comunità di Gerusalemme riunita in preghiera e in attesa per la venuta dello Spirito Santo, che la confermerà nell’unità e nella sua missione universale.[406]

Inoltre, i rettori dei santuari promuovano, ogni qualvolta se ne offra l’opportunità, incontri di preghiera fra i cristiani delle varie confessioni; in tali incontri, preparati con cura e in collaborazione, dovrà primeggiare la Parola di Dio e dovranno essere valorizzate le espressioni di preghiera proprie delle varie confessioni cristiane.

Secondo le circostanze, sarà talvolta opportuno estendere eccezionalmente l’attenzione anche ai membri delle altre religioni: vi sono infatti santuari frequentati da non cristiani, che vi accorrono attratti dai valori propri del cristianesimo. Tutti gli atti di culto che si svolgono nei santuari debbono essere chiaramente coerenti con l’identità cattolica, senza mai nascondere ciò che appartiene alla fede della Chiesa.

278. L’impegno ecumenico assume aspetti particolari quando si tratta di santuari dedicati alla beata Vergine. Sul piano soprannaturale infatti santa Maria, che ha dato alla luce il Salvatore di tutte le genti ed è stata la sua prima e perfetta discepola, svolge certamente una missione di concordia e di unità nei confronti dei discepoli di suo Figlio, per cui la Chiesa cattolica la saluta quale Mater unitatis;[407] sul piano storico, invece, la figura di Maria, a causa delle diverse interpretazioni del suo ruolo nella storia della salvezza, è stata spesso motivo di contrasto e di divisione fra i cristiani. Si deve tuttavia riconoscere che, sul versante mariano, il dialogo ecumenico sta oggi dando i suoi frutti.

Il pellegrinaggio

279. Il pellegrinaggio, esperienza religiosa universale,[408] è un’espressione tipica della pietà popolare, strettamente connessa con il santuario, della cui vita costituisce una componente indispensabile:[409] il pellegrino ha bisogno del santuario e il santuario del pellegrino.

Pellegrinaggi biblici

280. Nella Bibbia risaltano, per il loro simbolismo religioso, i pellegrinaggi dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe a Sichem (cf. Gn 12, 6-7; 33, 18-20), Betel (cf. Gn 28, 10-22; 35, 1-15) e Mamre (Gn 13, 18; 18, 1-15), dove Dio si manifestò ad essi e si impegnò a dare la "terra promessa".

Per le tribù uscite dall’Egitto, il Sinai, il monte della teofania a Mosè (cf. Es 19-20), divenne un luogo sacro e l’intera traversata del deserto sinaitico ebbe per esse il senso di un lungo viaggio verso la terra sacra della promessa: viaggio benedetto da Dio, che, nell’Arca (cf. Nm 10, 33-36) e nel Tabernacolo (cf. 2Sam 7,6), simboli della sua presenza, cammina con il suo popolo, lo guida e lo protegge per mezzo della Nube (cf. Nm 9, 15-23).

Gerusalemme, divenuta sede del Tempio e dell’Arca, passò ad essere la città-santuario degli Ebrei, la meta per eccellenza del desiderato "santo viaggio" (Sal 84, 6), in cui il pellegrino avanza "in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa" (Sal 42, 5) fino "alla casa di Dio", per comparire alla sua presenza (cf. Sal 84, 6-8).[410]

Tre volte all’anno i maschi di Israele dovevano "presentarsi al Signore" (cf. Es 23, 17), vale a dire recarsi al Tempio di Gerusalemme: ciò diede luogo a tre pellegrinaggi in occasione delle feste degli Azzimi (la Pasqua), delle Settimane (Pentecoste) e delle Tende; e ogni pia famiglia israelita si recava, come faceva la famiglia di Gesù (cf. Lc 2, 41), nella città santa per la celebrazione annuale della Pasqua. Durante la vita pubblica, anche Gesù si reca abitualmente pellegrino a Gerusalemme (cf. Gv 11, 55-56); è noto peraltro che l’evangelista Luca presenta l’azione salvifica di Gesù come un misterioso pellegrinaggio (cf. Lc 9, 51—19, 45), la cui meta intenzionale è Gerusalemme, la città messianica, il luogo del suo sacrificio pasquale e del suo esodo al Padre: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre" (Gv 16, 28).

E proprio durante un raduno di pellegrini a Gerusalemme, di "Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo" (At 2, 5), per celebrare la Pentecoste, la Chiesa inizia il suo cammino missionario.

Il pellegrinaggio cristiano

281. Da quando Gesù ha compiuto in se stesso il mistero del Tempio (cf. Gv 2, 22-23) ed è passato da questo mondo al Padre (cf. Gv 13, 1), compiendo nella sua persona l’esodo definitivo, per i suoi discepoli non esiste più alcun pellegrinaggio obbligatorio: tutta la loro vita è cammino verso il santuario celeste e la Chiesa stessa sa di essere "pellegrina sulla terra".[411]

Tuttavia la Chiesa, per la consonanza esistente tra la dottrina di Cristo e i valori spirituali del pellegrinaggio, non solo ha ritenuto legittima questa forma di pietà, ma l’ha incoraggiata lungo i secoli.

282. Nei primi tre secoli il pellegrinaggio, salvo qualche eccezione, non fa parte delle espressioni cultuali del cristianesimo: la Chiesa temeva la contaminazione con pratiche religiose del giudaismo e del paganesimo, nei quali la pratica del pellegrinaggio era in auge.

Tuttavia in questi secoli si pongono le basi per una ripresa, con impronta cristiana, della pratica del pellegrinaggio: il culto dei martiri, presso le cui tombe si recavano i fedeli per venerare le spoglie mortali di questi insigni testimoni di Cristo, determinerà progressivamente e logicamente il passaggio dalla "visita devota" al "pellegrinaggio votivo".

283. Dopo la pace costantiniana, in seguito all’identificazione dei luoghi e al ritrovamento di reliquie della Passione del Signore, il pellegrinaggio cristiano conosce una svolta: è soprattutto la visita alla Palestina che, per i suoi "luoghi santi", diviene tutta, a cominciare da Gerusalemme, Terrasanta. Lo testimoniano i resoconti di famosi pellegrini, quali l’Itinerarium Burdigalense e l’Itinerarium Egeriae, entrambi del IV secolo.

Sui "luoghi santi" si costruiscono basiliche, quali l’Anastasis edificata sul Santo Sepolcro e il Martyrium sul Monte Calvario, che costituiscono un forte richiamo per i pellegrini. Anche i luoghi dell’infanzia del Salvatore e della sua vita pubblica diventano meta di pellegrinaggi, che si estendono pure nei luoghi sacri dell’Antico Testamento, quale il Monte Sinai.

284. Il Medioevo è stata l’epoca aurea per i pellegrinaggi; essi, oltre alla preminente funzione religiosa, hanno svolto un’azione straordinaria in rapporto all’edificazione della cristianità occidentale, all’amalgama dei vari popoli, all’interscambio dei valori delle diverse civiltà europee.

I centri di pellegrinaggio sono numerosi. Innanzitutto, Gerusalemme, la quale, nonostante l’occupazione islamica, continua ad essere un luogo di grande attrazione spirituale, anzi è all’origine del fenomeno delle crociate, il cui motivo ispiratore fu appunto quello di permettere ai fedeli di visitare il sepolcro di Cristo. Anche le reliquie della passione del Signore, come la tunica, il volto santo, la scala santa, la sindone attirano innumerevoli fedeli e pellegrini. A Roma si recano i "romei" per venerare le memorie degli apostoli Pietro e Paolo (ad limina Apostolorum), per visitare le catacombe e le basiliche, per riconoscere il servizio del Successore di Pietro in favore della Chiesa universale (ad Petri sedem). Frequentatissimo nei secoli IX-XVI, ed anche oggi, è Santiago de Compostela, verso il quale convergono da diversi paesi "cammini" vari, costituitisi in seguito ad una visione del pellegrinaggio a sua volta religiosa, sociale, e caritativa. Tra altri si possono nominare Tours, dove è la tomba di san Martino, venerato fondatore di quella Chiesa; Canterbury, dove san Tommaso Becket consumò il suo martirio, che ebbe grande risonanza in tutta Europa; il Monte Gargano in Puglia, S. Michele della Chiusa in Piemonte, il Mont Saint-Michel in Normandia, dedicati all’arcangelo Michele; Walsingham, Rocamadour e Loreto, sedi di celebri santuari mariani.

285. Nell’epoca moderna, per il mutato clima culturale, per le vicende occasionate dal movimento protestante e per l’influsso dell’illuminismo, il pellegrinaggio subisce un declino: il "viaggio al paese lontano" diventa "pellegrinaggio spirituale", "cammino interiore" o "processione simbolica", consistente in un breve percorso, come nel caso della Via Crucis.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento si assiste ad una ripresa del pellegrinaggio, ma cambia in parte la sua fisionomia: esso ha come meta santuari che sono particolari espressioni dell’identità della fede e della cultura di una nazione; tale è il caso, ad esempio, dei santuari di Altötting, Antipolo, Aparecida, Assisi, Caacupé, Chartres, Coromoto, Czestochowa, Ernakulam-Angamaly, Fatima, Guadalupe, Kevelaer, Knock, La Vang, Loreto, Lourdes, Mariazell, Marienberg, Montevergine, Montserrat, Nagasaki, Namugongo, Padova, Pompei, San Giovanni Rotondo, Washington, Yamoussoukro, eccetera.

Spiritualità del pellegrinaggio

286. Nonostante i mutamenti subiti nel corso dei secoli, il pellegrinaggio mantiene, anche nel nostro tempo, i tratti essenziali che ne determinarono la spiritualità.

Dimensione escatologica. Essa è essenziale e originaria: il pellegrinaggio, "cammino verso il santuario", è momento e parabola del cammino verso il Regno; il pellegrinaggio infatti aiuta a prendere coscienza della prospettiva escatologica in cui si muove il cristiano, homo viator: tra l’oscurità della fede e la sete della visione, tra il tempo angusto e l’aspirazione alla vita senza fine, tra la fatica del cammino e l’attesa del riposo, tra il pianto dell’esilio e l’anelito alla gioia della patria, tra l’affanno dell’attività e il desiderio della serena contemplazione.[412]

L’evento dell’esodo, cammino di Israele verso la terra promessa, si riflette anche nella spiritualità del pellegrinaggio: il pellegrino sa che "non abbiamo quaggiù una città stabile" (Eb 13, 14), perciò, al di là della meta immediata del santuario, avanza, attraverso il deserto della vita, verso il Cielo, vera Terra promessa.

Dimensione penitenziale. Il pellegrinaggio si configura come un "cammino di conversione": camminando verso il santuario, il pellegrino compie un percorso che va dalla presa di coscienza del proprio peccato e dei legami che lo vincolano a cose effimere e inutili al raggiungimento della libertà interiore e alla comprensione del significato profondo della vita.

Come è stato detto, per molti fedeli la visita al santuario costituisce un’occasione propizia, spesso ricercata, per accostarsi al sacramento della Penitenza[413] e il pellegrinaggio stesso è stato inteso e proposto nel passato – ma anche nel nostro tempo – come un’opera penitenziale.

Peraltro, quando il pellegrinaggio è compiuto in modo genuino, il fedele ritorna dal santuario con il proposito di "cambiare vita", di orientarla più decisamente verso Dio, di dare ad essa una più marcata prospettiva trascendente.

Dimensione festiva. Nel pellegrinaggio la dimensione penitenziale coesiste con la dimensione festiva: anch’essa è nel cuore del pellegrinaggio, in cui si riscontrano non pochi motivi antropologici della festa.

La gioia del pellegrinaggio cristiano è prolungamento della letizia del pio pellegrino di Israele: "Quale gioia, quando mi dissero: "Andremo alla casa del Signore"" (Sal 122, 1); è sollievo per la rottura della monotonia quotidiana nella prospettiva di un momento diverso; è alleggerimento del peso della vita, che per molti, soprattutto per i poveri, è fardello pesante; è occasione per esprimere la fraternità cristiana, per dare spazio a momenti di convivenza e di amicizia, per liberare manifestazioni di spontaneità spesso represse.

Dimensione cultuale. Il pellegrinaggio è essenzialmente un atto di culto: il pellegrino cammina verso il santuario per andare incontro a Dio, per stare alla sua presenza rendendogli l’ossequio della sua adorazione e aprendogli il cuore.

Nel santuario il pellegrino compie numerosi atti di culto appartenenti alla sfera sia della Liturgia sia della pietà popolare. La sua preghiera assume forme varie: di lode e adorazione al Signore per la sua bontà e la sua santità; di ringraziamento per i doni ricevuti; di scioglimento di un voto, a cui il pellegrino si era obbligato nei confronti del Signore; di implorazione di grazie necessarie per la vita; di richiesta di perdono per i peccati commessi.

Molto spesso la preghiera del pellegrino è rivolta alla beata Vergine, agli Angeli e ai Santi, riconosciuti validi intercessori presso l’Altissimo. Peraltro le icone venerate nel santuario sono segno della presenza della Madre e dei Santi accanto al Signore glorioso, "sempre vivo per intercedere" (Eb 7, 25) in favore degli uomini e sempre presente nella comunità riunita nel suo nome (cf. Mt 18, 20; 28, 20). L'immagine sacra del santuario, sia essa di Cristo, della Vergine, degli Angeli o dei Santi, è segno santo della divina presenza e dell’amore provvidente di Dio; è testimone della preghiera che di generazione in generazione si è levata davanti ad essa come voce supplice del bisognoso, gemito dell’afflitto, giubilo riconoscente di chi ha ottenuto grazia e misericordia.

Dimensione apostolica. L’itineranza del pellegrino ripropone, in un certo senso, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina per annunciare il Vangelo di salvezza. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini divengono "araldi itineranti di Cristo".[414]

Dimensione comunionale. Il pellegrino che si reca al santuario è in comunione di fede e di carità non solo con i compagni con i quali compie il "santo viaggio" (cf. Sal 84, 6), ma con il Signore stesso, che cammina con lui come camminò al fianco dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24, 13-35); con la sua comunità di provenienza e, attraverso di essa, con la Chiesa dimorante nel cielo e pellegrinante sulla terra; con i fedeli che, lungo i secoli, hanno pregato nel santuario; con la natura, che circonda il santuario, di cui ammira la bellezza e che si sente portato a rispettare; con l’umanità, la cui sofferenza e la cui speranza si manifestano variamente nel santuario, e il cui ingegno e la cui arte hanno lasciato in esso molteplici segni.

Svolgimento del pellegrinaggio

287. Come il santuario è un luogo di preghiera, così il pellegrinaggio è un cammino di preghiera. In ogni sua tappa la preghiera dovrà animare il pellegrinaggio e la Parola di Dio esserne luce e guida, nutrimento e sostegno.

Il buon esito di un pellegrinaggio, in quanto manifestazione cultuale, e gli stessi frutti spirituali che da esso si attendono sono assicurati dall’ordinato svolgimento delle celebrazioni e da una adeguata sottolineatura delle sue varie fasi.

La partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore[415] o in una peculiare benedizione dei pellegrini.[416]

L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.

L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di "liturgia della soglia", che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.

La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso.[417]

La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito;[418] i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana.

Dall’antichità, il pellegrino desidera portare con sé dei "ricordi" del santuario visitato. Si avrà cura che oggetti, immagini, libri, trasmettano l’autentico spirito del luogo santo. Si deve inoltre far sì che i punti vendita non si trovino all’interno dell’area sacra del santuario né abbiano l’apparenza di mercato.

Guido Giraudo, giornalista: Il Cammino di Santiago come "via pulchritudinis".


«Via pulchritudinis» e spiritualità della Contro-Rivoluzione. Una nuova raccolta di testi di Plinio Corrêa de Oliveira

di Massimo Introvigne


La Chiesa, ci ha ricordato Benedetto XVI nel Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi del 22 dicembre 2008, ormai un consueto appuntamento annuale in cui il Papa ricorda i temi più significativi del suo magistero durante l’anno trascorso, è affezionata alle «date incisive», agli anniversari. Se alcune sono comuni alla Chiesa universale – e fra queste Benedetto XVI ha ricordato i centocinquant’anni dalle apparizioni di Lourdes del 1858, i cinquanta dalla morte di Pio XII (1876-1958) e i quaranta dall’enciclica del 1968 Humanae vitae di Paolo VI (1897-1978), che segna pure un «Sessantotto nella Chiesa», l’inizio di un oscuro periodo di contestazione del magistero, non è certamente illecito fare memoria di date che si riferiscono alla particolare sensibilità di una scuola di pensiero o di spiritualità. Così il Papa stesso ha voluto ricordare nel corso del suo viaggio in Francia, nell’omelia del 15 settembre nella Basilica di Lourdes, dom Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935) – nel centocinquantenario della nascita – la cui opera L’anima di ogni apostolato ha formato generazioni di cattolici e che Benedetto XVI ha voluto raccomandare a ogni «cristiano fervoroso».

Chi s’ispira al pensiero dellascuola cattolica contro-rivoluzionaria nel 2008 ha ricordato il centenario della nascita del pensatore e leader cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), che di quella scuola è stato il più significativo esponente nel secolo XX. Nel 2009 cade il cinquantesimo anniversario della prima pubblicazione – sul numero 100 della rivista Catolicismo – dell’opera principale di Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Cadono anche il cinquantesimo anniversario della prima edizione di Pour qu’Il Règne di Jean Ousset (1914-1994), l’opera probabilmente più significativa prodotta nel secolo scorso dalla scuola contro-rivoluzionaria francese (che per contesto, storia e peripezie resta peraltro diversa e non assimilabile rispetto al pensiero e all’azione di Corrêa de Oliveira), e il venticinquesimo della pubblicazione dell’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliato et Paenitentia di Giovanni Paolo II (1920-2005), un documento del magistero pontificio che sembra tenere conto in modo particolare dell’interpretazione della storia dell’Occidente proposta da questa scuola.

In effetti, la scuola contro-rivoluzionaria è soprattutto nota per la sua dottrina e per la sua interpretazione teologica e filosofica della storia. Ha pure una sua specifica spiritualità? Se si guarda alle figure più importanti della scuola nel XX secolo una prima risposta non può che fare riferimento alla spiritualità di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) e ai suoi Esercizi Spirituali. L’incontro con le Congregazioni Mariane è decisivo per la formazione del giovane Corrêa de Oliveira e segna tutta la sua vita, così come l’ambiente francese in cui nasce Pour qu’Il Règne di Ousset non sarebbe neppure potuto sorgere senza l’attività del religioso spagnolo Francisco de Paula Vallet C.P.C.R. (1883-1947) e della casa da lui fondata a Chabeuil per dettare a migliaia di persone gli Esercizi, in una versione abbreviata a cinque giorni (rispetto al mese originario di sant’Ignazio) particolarmente adatta ai laici. Da sant’Ignazio e dagli Esercizi l’ambiente contro-rivoluzionario – in Francia come in Brasile e altrove – apprende una spiritualità che fa costante riferimento a quelle che la devozione popolare francese chiama les trois blancheurs: l’Eucarestia, l’Immacolata e il Papa. Qui, in fondo, tutto si riassume, e ben poco d’altro ci sarebbe da dire.

E tuttavia dell’altro c’è. A Dio si arriva attraverso il vero, il buono e il bello. La Rivoluzione – intesa dalla scuola contro-rivoluzionaria come processo di attacco al cristianesimo che percorre tutta la storia dell’Occidente moderno – ha reso particolarmente difficile, tanto più per i laici immersi nel mondo, cogliere il vero e il buono. Rimane il bello, ed è significativo come la scuola contro-rivoluzionaria del XX secolo abbia insistito sulla via pulchritudinis, la via del bello, non certamente come l’unica via spirituale del nostro tempo ma come una via specialmente adeguata ai laici nell’epoca della Rivoluzione. La Via pulchritudinis è anche il titolo del documento finale dell’Assemblea plenaria del 27-28 marzo 2006 del Pontificio Consiglio della Cultura: un documento la cui consonanza – quanto all’architettura e allo schema generale – con questo aspetto della spiritualità di Corrêa de Oliveira è davvero notevole.

Uno schema simile (anche se certamente non identico, giacché anche qui giocano le differenze di contesto e di storia) è stato proposto nell’ambiente contro-rivoluzionario francese cui ho fatto riferimento, per esempio nel volume del 1971 di Ousset À la découverte du Beau (Montalza, Parigi 1971) e nelle opere dei fratelli Henri Charlier (1883-1975) – da molti considerato il maggiore scultore di soggetti religiosi del secolo XX, ma anche autore di opere dottrinali di notevole pregio – e André Charlier (1895-1971), preside dell’École des Roches di Maslacq – la più prestigiosa scuola privata in internato della Francia fin dal XIX secolo – che trasforma, durante il periodo della sua presidenza, in un centro di formazione di una élite cattolica e contro-rivoluzionaria (vi si forma, tra l’altro, anche dom Gérard Calvet, 1927-2008, futuro fondatore dell’abbazia Sainte-Madeleine du Barroux). In questo caso, peraltro, il rapporto con il documento del Pontificio Consiglio della Cultura è dichiarato, dal momento che è esplicitamente citata come fonte (cfr. nota 9 dello stesso documento) la filosofia dell’arte di padre Marie-Dominique Philippe O.P. (1912-2006), le cui relazioni con questo ambiente francese sono state numerose e profonde.

La possibilità di studiare i rapporti fra la scuola contro-rivoluzionaria e la via pulchritudinis si arricchisce ora di una preziosa raccolta di testi in gran parte inediti di Corrêa de Oliveira, raccolti e coordinati da una Commissione di redazione presieduta da Paulo Corrêa de Brito Filho e che ha visto come redattore del volume Leo Daniele, come revisore Antonio Augusto Borrelli Machado e come ricercatore José Antonio Ureta – senza dimenticare il progetto grafico di Luis Guillermo Arroyave, tanto più che il volume è arricchito da numerose immagini e fotografie. Il testo, A Inocência primeva e a contemplação sacral do universo no pensamento de Plinio Corrêa de Oliveira (Artpress, San Paolo 2008: le successive citazioni senza altra indicazione e precedute dal riferimento “p.” sono tutte tratte da questo testo), si presenta come il primo frutto dei lavori dell’Instituto Plinio Corrêa de Oliveira, presieduto dal cugino primo e stretto collaboratore del pensatore brasiliano Adolfo Lindenberg. Dal punto di vista filologico l’operazione condotta da Daniele non è stata facile. Corrêa de Oliveira ha infatti lasciato numerosi inediti, e un numero ancora maggiore di conversazioni e riunioni le cui trascrizioni rivelano lo stile colloquiale.

Come ricorda nella prefazione Corrêa de Brito Filho, «se Aristotele pensava camminando [di qui, naturalmente, l’appellativo di “peripatetica” dato alla sua scuola], Plinio Corrêa de Oliveira pensava conversando» (p. 14). A chi intenda raccoglierne gl’inediti si pone dunque la scelta se sottoporli a una massiccia opera di revisione editoriale ovvero pubblicarli come sono. Nel secondo caso, filologicamente più corretto, la semplice pubblicazione cronologica porterebbe a opere immense fruibili solo da pochi specialisti. Di qui la scelta d’iniziare a pubblicare brani di Corrêa de Oliveira ordinandoli per temi, nello stesso tempo distinguendo chiaramente attraverso l’uso di vari tipi di virgolette quanto viene in effetti dal pensatore brasiliano e quanto è stato aggiunto, coordinando testi e discorsi diversi, dai curatori. Ne risulta un’opera che – se non dispensa lo specialista dal risalire alle fonti e agli archivi – trasmette però in modo fedele l’insegnamento di Corrêa de Oliveira su temi che interessano non solo agli studiosi, ma alla generalità dei fedeli cattolici del nostro tempo. La cura del testo e lo sforzo per coordinare i materiali raccolti in modo che delineino un percorso rappresentano anche, per così dire, uno stadio ulteriore rispetto alla pur utile raccolta di «brani scelti» di Corrêa de Oliveira su temi analoghi pubblicata nel 1997, sempre a cura di Leo Daniele, con il titolo O Universo é uma Catedral (Edições Brasil de Amanhã, San Paolo), cui si erano affiancate raccolte analoghe relative ad altri temi.

La via pulchritudinis non è l’unico tema del volume appena pubblicato, ma vi ha certamente un ruolo principale. Il riferimento a una inocência primeva nella prima parte dell’opera è in fondo una raccolta di riflessioni che, come spesso accade nella storia del pensiero cattolico, un maestro di dottrina e di vita spirituale sa trarre da un singolo insegnamento del Vangelo: «Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). L’«innocenza primeva» è precisamente lo stato del bambino così com’è descritto nel Vangelo di Matteo: una capacità genuina di stupirsi di fronte al creato non ancora contaminata dall’abitudine al peccato. Il Signore ci dice che è obbligatorio per tutti, a pena di non entrare nel regno dei cieli, «diventare come i bambini». Che cosa significa? Di certo, riflette Corrêa de Oliveira, non si tratta di diventare, da adulto, «un ingenuo, uno spirito infantile, un uomo fuori della realtà» (p. 45). L’«innocenza» dei bambini – e di chi «diventa come i bambini» - è l’orientamento al bello, al vero e al buono che coincide con la «nobiltà d’animo» (p. 47).

Da questo punto di vista «l’innocenza non è un privilegio dell’infanzia e può prolungarsi fino alla fine della vita» (p. 45). È la capacità di ristabilire il contatto con i «modelli ideali» (ibid.) che, dopo l’infanzia, rimangono in noi come sommersi, ma possono riemergere. Corrêa de Oliveira ci propone di meditare sulla leggenda bretone della cattedrale di Ys, la cathédrale engloutie (che molti conoscono dall’omonimo preludio musicale di Claude Debussy, 1862-1918) sommersa da secoli dalle acque del mare ma di cui i pescatori talora odono il suono delle campane, fatte risuonare dagli angeli, preludio al suo futuro trionfale riemergere dalle acque. «Non vi è chi non percepisca la straordinaria bellezza, la straordinaria poesia di questa leggenda. L’innocenza primeva non è qualcosa che il diavolo riesca a sradicare interamente dalla nostra anima. Vi resta come una cathédrale engloutie, una cattedrale sommersa dalle acque del peccato ma che ancora esiste in noi. Di tanto in tanto le campane di questa innocenza rintoccano, e ci fanno sentire come una melodia interiore, una nostalgia, una speranza […]. Il problema della restaurazione dell’innocenza dei bambini nell’età adulta – usando l’immagine della cathédrale engloutie – è fare sì che la cattedrale sepolta, cioè l’innocenza che conserviamo dentro di noi ma nelle acque del peccato, smetta di essere engloutie e venga di nuovo alla luce» (pp. 53-54).

Un «problema», appunto: e di non facile soluzione nel mondo moderno. La via per risolverlo che Corrêa de Oliveira propone parte da dove partono i bambini – la capacità di stupirsi e di meravigliarsi – e percorre la via pulchritudinis. I curatori del volume organizzano le riflessioni del pensatore brasiliano, nella seconda parte del testo, secondo otto «finestre»: l’«ammirazione» – intesa qui come capacità di «ammirare» il creato in atteggiamento di stupore –, che è una vera e propria virtù; l’analisi degli «ambienti, costumi e civiltà» – il titolo di una rubrica che Corrêa de Oliveira tenne per anni sulla rivista Catolicismo e che invitava i lettori alla meditazione a partire da fotografie di persone, paesaggi o opere d’arte –; il senso del simbolismo; la ricerca dell’Assoluto; «la trasparenza e la trascendenza», cioè la capacità delle realtà del creato (naturali o umane) di elevare l’animo verso quanto lo trascende, verso l’alto, il che implica la possibilità di vedere queste realtà come «trasparenti», in quanto consentono di guardare al di là di se stesse; il senso del mistero; il mondo dei possibili (cioè la riflessione, a partire ancora da elementi sia naturali sia artistici, sulle nozioni filosofiche di potenza e di atto e sul fatto che non tutto quanto esiste in potenza viene a esistere in atto); e «la nozione di trans-sfera» (trans-esfera), il luogo dove gli eventi della storia sopravvivono come miti – una parola che il pensatore brasiliano invita peraltro a maneggiare con grande cautela – e influenzano la condotta degli uomini.

Come si è accennato, la tematica è simile – con alcune differenze, che non mancherò di segnalare – a quella del documento del Pontificio Consiglio della Cultura La Via pulchritudinis del 2006. Anche in questo documento si sottolinea come in un’epoca di crisi la via del bello – che non è, ovviamente, l’unica via – può riuscire meno difficile rispetto alla via del vero o a quella del buono, anche se i tre elementi alla fine non potranno che convergere. Nelle parole del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988), ricordate dal documento, forse nel mondo moderno «gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica» e il bene «ha perduto la sua forza di attrazione», così che non resta che partire dal bello (II.3: questa e le successive citazioni che iniziano con un numero romano fanno tutte riferimento al documento La Via pulchritudinis). Ancora, il documento propone una citazione dello scrittore e dissidente anti-comunista russo Aleksandr I. Solženicyn (1918-2008) nel suo Discorso per la consegna del Premio Nobel per la Letteratura: «Questa antica triunità della Verità, del Bene e della Bellezza non è semplicemente una caduca formula da parata, come ci era sembrato ai tempi della nostra presuntuosa giovinezza materialistica. Se, come dicevano i sapienti, le cime di questi tre alberi si riuniscono, mentre i germogli della Verità e del Bene, troppo precoci e indifesi, vengono schiacciati, strappati e non giungono a maturazione, forse strani, imprevisti, inattesi saranno i germogli della Bellezza a spuntare e crescere nello stesso posto e saranno loro in tal modo a compiere il lavoro per tutti e tre» (ibid.).

Da un punto di vista sociologico, è certamente vero che oggi grandi folle percepiscono in modo intuitivo la bellezza del cristianesimo e della cristianità attraverso l’architettura, la pittura, la scultura. «Le opere d’arte di ispirazione cristiana, che costituiscono una parte incomparabile del patrimonio artistico e culturale dell’umanità, sono oggetto di una vera infatuazione da parte di folle di turisti, credenti o non credenti, agnostici o indifferenti al fatto religioso. Tale fenomeno è in continuo aumento e raggiunge tutte le categorie della popolazione» (III.2). Ma questa «infatuazione» dev’essere evangelizzata. «La via della bellezza non è priva di ambiguità e di deviazioni» (II.1).

La via pulchritudinis, in effetti, non è una via facile. Non tutto quello che passa per bello lo è veramente. Da una parte, secondo il documento del 2006, «una certa abitudine alla bruttezza, al cattivo gusto, alla volgarità, si vede promossa sia dalla pubblicità sia da alcuni “artisti folli” che fanno dell’immondo e del brutto un valore, al fine di suscitare scandalo» (II.2). Dall’altra, anche di fronte a qualche cosa che è effettivamente bello c’è sempre il rischio di considerare la bellezza delle realtà create come fine a se stessa e di restarvi intrappolati anziché elevare l’anima verso il Creatore: «L’uomo spesso rischia di lasciarsi intrappolare dalla bellezza presa in se stessa, icona divenuta idolo, mezzo che inghiottisce il fine, verità che imprigiona, trappola in cui cade un gran numero di persone, per mancanza di un’adeguata formazione della sensibilità e di una corretta educazione alla bellezza» (ibid.). Ne I fratelli Karamazov dello scrittore russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881)«Dmitrij Karamazov confida a suo fratello Alëša: “La Bellezza è una cosa terribile. E’ la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore”» (ibid.).

Il testo di Corrêa de Oliveira è una guida per percorrere i sentieri della via pulchritudinis in un’epoca dove si rischia spesso di finire fuori strada. La montagna della bellezza ha infatti diversi sentieri. Questi non sono sullo stesso piano, e tuttavia vi è un interesse a percorrerli tutti. Chi vuole conoscere una montagna non ne esplora solo la vetta, né un pasto completo e raffinato potrebbe ridursi ai soli dessert e champagne. Così dal punto di partenza dello stupore e del senso del meraviglioso – che è già nostalgia dell’Assoluto – si dipartono (è lo schema del documento del 2006, che nel volume del pensatore brasiliano trova appunto significative corrispondenze) tre sentieri che ci fanno esplorare rispettivamente la bellezza della creazione (il mondo minerale, vegetale e animale), la bellezza delle opere create dall’uomo, e la bellezza delle vite esemplari degli uomini e delle donne che hanno corrisposto alla grazia di Dio. Questi sentieri non sono uguali. L’uomo è stato pensato e voluto da Dio come il vertice del creato, e la bellezza della vita di un santo è immensamente superiore alla bellezza di un minerale o di un quadro. Tuttavia nel nostro pellegrinaggio terreno incontriamo l’una e gli altri, e la via pulchritudinis, bene intesa, consiste nell’acquisire l’abitudine alla contemplazione a partire da ciascuna di queste realtà.

Le realtà del mondo minerale, vegetale, animale permettono a loro modo una prima «contemplazione sacrale dell’universo» a partire da quella «ammirazione» che ha a che fare con l’«innocenza primeva» e che permette di vedere nella bellezza delle creature un rimando e un simbolo della bellezza del Creatore. In questo senso le creature belle sono tutte «trasparenti»: uno sguardo formato permette di andare oltre la bellezza creata per meditare sulla creazione e sul suo Artefice. Corrêa de Oliveira mette in relazione queste meditazioni con la quarta delle vie attraverso le quali san Tommaso d’Aquino (1227?-1274) prova l’esistenza di Dio: quella che parte dai gradi di perfezione, e afferma che se esistono nel mondo perfezioni in grado maggiore o minore deve esisterne un grado assoluto, Dio. Il pensatore brasiliano fa notare come la quarta via, a sua volta, presuppone la nozione metafisica di partecipazione che era al centro delle riflessioni del filosofo italiano padre Cornelio Fabro C.S.S. (1911-1995), ed è in intima relazione con la ricerca dell’Assoluto (p. 119).

Così già un minerale può certo essere considerato soltanto nelle sue proprietà chimiche o fisiche, ma deve essere visto dal cristiano come un dono del Creatore e il possibile punto di partenza di una meditazione sull’Assoluto. Corrêa de Oliveira, che amava circondarsi di minerali di cui il Brasile è così ricco, afferma: «Mi ricordo dello sconcerto con cui mi accostavo alle prime lezioni di chimica. Il professore – ahimé, un ateo che ci teneva a presentarsi come tale – diceva: “Uno smeraldo è solo la somma degli elementi x, y e z”, e dava la rispettiva formula chimica, presentandola come la conoscenza più profonda che si potesse avere dello smeraldo» (pp. 101-102). Da un punto di vista materiale il professore aveva ragione: uno smeraldo è un silicato di alluminio e berillio, e vi è certo un interesse a saperlo. Ma da un altro punto di vista il professore ateo si presenta in questa scena come uno stolto, perché nessuno pagherebbe i prezzi correnti degli smeraldi brasiliani – un elemento che, dopo tutto, dovrebbe interessare anche a un materialista – in nome di una mera passione da chimico per i silicati. È evidente che lo smeraldo è apprezzato in quanto simbolo e segno della bellezza. E che per il credente anche lo smeraldo può essere una finestra sulle perfezioni del Creatore.

Il documento del Pontificio Consiglio della Cultura propone una riflessione simile quando, mettendo nello stesso tempo in guardia anche contro un certo ecologismo, propone il sentiero della bellezza che parte dalle realtà naturali, ma afferma: «Sono, tuttavia, numerosi gli uomini e le donne che vedono la natura e il cosmo solo nella loro materialità visibile, universo muto che avrebbe il solo destino di obbedire alle fredde e immutabili leggi fisiche, senza evocare nessun’altra bellezza, ancor meno un Creatore. In una cultura in cui lo scientismo impone i limiti del suo metodo di osservazione fino a farne il criterio esclusivo di conoscenza, il cosmo viene ridotto ad essere soltanto un immenso serbatoio al quale l’uomo attinge […]. Il Libro della Sapienza mette in guardia contro tale miopia che San Paolo denuncia come un “peccato di orgoglio e di presunzione” (Rm 1, 20-23)».

Il Brasile offre a Corrêa de Oliveira numerosi spunti di una meditazione che va dalla bellezza naturale all’Assoluto, dalle maestose foreste agl’innumerevoli uccelli multicolori. Ma anche un semplice gatto offre esempi di una perfezione che nessun artefice umano potrebbe imitare. «Le reazioni che i gatti evocano negli uomini sono molto diverse. Vanno dall'estremo dell’antipatia all’estremo della simpatia, passando per tutta la gamma intermedia. È che nel gatto, animale straordinariamente ricco di aspetti diversi, c'è di tutto. Tigre in miniatura, il gatto è una minuscola fiera, che a volte si manifesta graffiando, mordendo, saltando inopinatamente, soffiando, mettendo tutto in disordine e rompendo le cose in cui s’imbatte. Ma, quando l’elemento “fiera” si quieta, il gatto si mostra in modo opposto: vivace in una maniera che incanta, delicato e distinto in tutti i suoi gesti, espressivo nei suoi atteggiamenti, simpatico, delicato, insomma una vera statuina vivente.

Ma una statuina, tuttavia, che non ha quella certa aria di bagatella inseparabile in generale anche dalle statuine più raffinate. Perché nel suo sguardo, che ha qualche cosa di magnetico e insondabile, di riservato e di enigmatico, il gatto conserva la terribile e attraente superiorità del mistero.

Tale è la ricchezza dell'opera del Creatore che in questo essere meramente animale c’è qualcosa che presenta un’analogia precisa con le qualità e i difetti dell'uomo» (pp. 225-226).

Il secondo sentiero costeggia la montagna della bellezza a un’altezza superiore, ed è quello delle arti. Il tema è straordinariamente delicato, perché – come già si è accennato, e come ricorda il documento del Pontificio Consiglio della Cultura – da una parte vi sono oggi «artisti folli», magari idolatrati dalla critica e da certi musei ed esposizioni, che propagandano il volgare e il brutto, dall’altra anche all’infuori di questi casi siamo oggi circondati da «difficoltà dovute ad un certo clima culturale creato da una critica d’arte ampiamente influenzata da ideologie materialistiche: mettere in evidenza soltanto l’aspetto estetico-formale delle opere, senza interesse per il loro contenuto che ha ispirato tanta bellezza, rende sterile l’arte, inaridisce il flusso vivificante della vita spirituale per rinchiuderla nella sola emozione sensibile» (III.2).

Il testo di Corrêa de Oliveira non è né vuole essere un manuale di critica o di storia dell’arte, ancorché siano presentati alcuni spunti importanti, per esempio in tema di arte rinascimentale che, con tutta la sua perfezione tecnica, comincia a privilegiare la bellezza naturale e umana rispetto alla bellezza divina, e a rendere più difficile rispetto al Medioevo a chi fruisce delle sue opere, anche quando si tratta di arte sacra, l’immediato riferimento alla trascendenza divina. «La concezione medievale era fondata sull’idea dell’esistenza di un’altra vita e di un ordine di cose superiore. Il Rinascimento ruppe con questa percezione. Invece di cercare sempre l’ordine trascendente, considerando tutte le cose alla luce di un anelito a questo ordine superiore, l’uomo del Rinascimento comprendeva solo quanto poteva vedere e sentire in modo naturale» (p. 141). «L’opera d’arte del Rinascimento ci parla solo della vita presente. Se guardiamo allo sfondo paesaggistico dei dipinti la scena è una pura e semplice rappresentazione della natura. Descrizione spesso molto ben fatta e fedele, ma poco evocatrice, in quanto non ci rimanda ad altre realtà. Si tratta della natura, nulla di più. Se analizziamo una figura umana come una Madonna di Raffaello [Sanzio, 1483-1520] constatiamo lo stesso fenomeno: personifica una signora molto bella e serena, dotata di eccellente genio, di costumi molto puri, di tratto gradevole. Me non ci lascia l’impressione di qualche cosa di celeste. La pittura ci mostra una splendida persona di questa Terra. Nel Mosé di Michelangelo [Buonarroti, 1475-1564] ritroviamo lo stesso fenomeno. La scultura ci presenta un possente italiano, intelligente e capace, con uno sviluppo enorme della personalità. Ma nulla ci fa davvero percepire il Mosé della Bibbia, l’uomo che bagnò i suoi occhi in una luce soprannaturale e che venne in contatto con un ordine che trascende l’uomo» (pp. 220-221).

La lettura dell’opera d’arte – secondo il metodo della citata rubrica Ambienti, costumi e civiltà – e l’eventuale comparazione fra un’opera bella e una volgare o brutta, proposta da Corrêa de Oliveira, rimane una preziosa scuola per apprendere come la via pulchritudinis debba essere percorsa senza incertezze o deviazioni. Esemplare del metodo che è proposto – e che non manca di ricordare gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio – è l’«esercizio di trascendenza» che parte dal castello di La Mota, sito a Medina del Campo, in Spagna (pp. 257-261). Come negli Esercizi si parte da una «composizione di luogo» relativa a una scena della storia sacra, qui si inizia con l’osservazione del castello, con il suo «contrasto armonico fra tensione verso l’alto e stabilità», fra torri e bastioni (p. 260). L’esercizio non ignora la storia del castello e il suo ruolo nella storia della monarchia spagnola, e da questo punto di vista impegna anche un elemento razionale e intellettuale. Ma si tratta di «trascendenza» precisamente in quanto la torre e i bastioni rappresentano «la tensione verso l’alto cattolica, la stabilità cattolica» e ultimamente permettono di elevare il pensiero allo stesso «Divino Spirito Santo, stabile e capace di attrarre tutto verso l’alto allo stesso tempo» (p. 261).

Né si tratta solo della «grande» arte. In parallelo con riflessioni di Papa Giovanni Paolo II sull’estensione del termine «cultura» – e forse anche con tesi tipiche della scuola brasiliana di sociologia che s’ispira a Gilberto Freyre (1900-1987), così attenta all’influenza sulla società di realtà come l’abbigliamento, gli svaghi, la cucina (Freyre e Corrêa de Oliveira, che su molti punti avevano idee diversissime, peraltro si conoscevano e si stimavano) –, il volume che recensiamo presenta «esercizi» e meditazioni che partono da piccoli oggetti – una serratura, una statuina – e anche dal cibo e dalle bevande, in particolare il vino, di cui si ricorda che fanno parte a pieno titolo della cultura e il cui «significato simbolico» (p. 209) è del resto ripetutamente menzionato nella stessa Sacra Scrittura. Beninteso, non si tratta qui della dimensione quantitativa dei cibi e delle bevande – il cui esclusivo apprezzamento, anzi, porta all’eccesso e al vizio – ma al contrario dell’elemento qualitativo e propriamente «culturale».

Un aspetto originale delle riflessioni di Corrêa de Oliveira che vale la pena di mettere in evidenza è l’uso dell’arte – ma anche delle bellezze della natura – come porta alla riflessione sul «mondo dei possibili» e su aspetti non necessariamente facili della metafisica. Ogni realtà è in potenza prima di essere in atto. Il mondo dei possibili è infinito, e solo pochi possibili passano dalla potenza all’atto. Quando si apprende a meditare sul mondo dei possibili si finisce per comprendere che solo Dio può completamente dominarlo nell’atto creatore. Il testo propone di meditare sul mare come «orizzonte dei possibili» (p. 153). E in Brasile, dove come ricorda ci sono molti discendenti d’immigrati giapponesi, Corrêa de Oliveira torna spesso a meditare sul «cono più bello del mondo che è un cono che non esiste» (p. 164): la punta del monte Fujiyama, in Giappone, che sembra mancare così che la celebre montagna sembra quasi un’opera incompiuta. «Lo charme del Fujiyama sta tutto nel non avere questa punta, che si può soltanto immaginare» (p. 162): e questa zona di possibilità ci dà una lezione di metafisica, ci evoca quella zona dove le possibilità sono colte nell’atto di trasformarsi in realtà, la «zona in cui l’uomo deve dimorare mentalmente per avvicinarsi a Dio» (p. 164). Passando dalla natura all’arte, un’altra meditazione muove dalle torri della cattedrale di Notre-Dame a Parigi, rimaste incompiute e che «nessuno ha osato completare» (p. 165). Ma «l’edificio ci dice qualche cosa di queste torri che non esistono perché nulla di quanto cerchiamo d’immaginare ci soddisfa, a causa di un modello che esiste notturnamente nel nostro spirito e che ci entusiasma. E l’entusiasmo per qualche cosa che possiamo conoscere solo per via negativa ci dà come una scintilla dell’Assoluto» (pp. 165-166).

Il volume rivela anche l’interesse particolare del pensatore brasiliano per la pittura dell’artista barocco francese Claude Lorrain (1600-1682), pittore per eccellenza di panorami del tutto immaginari: «egli compone una città che non esiste, giustapponendo cose che o esistono senza connessioni fra loro o non esistono del tutto» (p. 151). «Qui è favorito il viaggio dell’uomo all’interno del meraviglioso. I quadri di Claude Lorrain dicono relazione al fatto che, tra le bellezze della natura, ve ne sono alcune che sono proporzionate all’ordine naturale in cui viviamo, ma altre sono così magnifiche da avere qualche cosa di sproporzionato rispetto a quest’ordine. Sono così splendide che ci fanno pensare a un altro universo, a un mondo che può presentarsi a noi come irreale, come inesistente, ma verso il quale la nostra anima s’inclina in modo irresistibile» (p. 153). Nella mostra Turner e l’Italia di Palazzo dei Diamanti a Ferrara (15 novembre 2008 - 22 febbraio 2009) i curatori hanno insistito giustamente sul rapporto decisivo che lega il pittore romantico inglese William Turner (1775-1851) a Claude Lorrain. Tuttavia nella mostra di Ferrara il confronto fra le opere di Lorrain e quelle di Turner rivela facilmente come tra i paesaggi immaginari del maestro francese e quelli dell’artista inglese intercorre una differenza. Mentre, per dirla con Corrêa de Oliveira, «nei quadri di Lorrain non c’è nulla di tormentato» (p. 153), Turner s’ispira a Lorrain ma nei suoi quadri le costruzioni sono spesso rovine su cui infuria un tempo inclemente. Non si tratta solo del clima inglese: tra Lorrain e Turner si è rotto qualcosa, è passata la Rivoluzione francese, che non permette più d’immaginare paesaggi con la beata serenità del secolo XVII.

Come ricorda pure il documento del 2006 del Pontificio Consiglio della Cultura, vi è un terzo sentiero della via pulchritudinis che si spinge ben più in alto rispetto a quelli della natura e dell’arte: la contemplazione della santità e della bellezza delle azioni umane ispirate dalla grazia, nella vita e nelle cerimonie della Chiesa e nell’opera dei santi, fino alle vette sublimi e inarrivabili della montagna del Bello rappresentate dalla bellezza della Vergine Maria e del Signore Gesù. Un caso esemplare è la bellezza della liturgia della Chiesa. È interessante notare come sia il documento del 2006 sia il volume che recensiamo evochino lo stesso episodio: la conversione del poeta francese Paul Claudel (1868-1955) durante il canto del Magnificat nei Vespri di Natale a Notre-Dame a Parigi, peraltro rievocata anche da Benedetto XVI nel corso dei Vespri celebrati a Notre-Dame il 12 settembre 2008 nel corso del suo viaggio apostolico in Francia. Il documento vaticano mette in relazione questo episodio con l’altro – citato da una conferenza dell’allora cardinale Joseph Ratzinger – dei messi del principe Vladimiro di Kiev (958-1015) che, inviati a Costantinopoli per indagare sul cristianesimo, dopo una «solenne liturgia nella basilica di Santa Sofia» tornano entusiasti ed esclamano: «Non sappiamo se siamo stati in cielo o sulla terra», determinando il principe a quel battesimo che è «alle origini del cristianesimo in Russia» (III.3).

Naturalmente, vi è anche un rovescio di medaglia. Se la maestà di una bella liturgia può convertire, il carattere sciatto di certe liturgie di oggi può facilmente mettere in fuga potenziali convertiti. Ci si può chiedere che cosa troverebbe oggi Claudel, che cosa riferirebbero i messi al principe Vladimiro. «La superficialità, e talvolta perfino la banalità, addirittura la negligenza di alcune celebrazioni liturgiche non solo non aiutano il credente a progredire nel suo cammino di fede, ma soprattutto offendono coloro che ritornano alle celebrazioni cristiane e, in particolare, all’Eucaristia domenicale. In questi ultimi decenni, alcuni sono arrivati a dare eccessiva importanza alla dimensione pedagogica e alla volontà di rendere la liturgia comprensibile perfino agli osservatori esterni, e hanno minimizzato la sua funzione principale: introdurci con tutto il nostro essere in un mistero che ci supera totalmente» (ibid.). Né aiutano «la bruttezza di certe chiese e delle loro decorazioni, la loro inadattabilità alla celebrazione liturgica» (III.2).

La più grande bellezza è la santità, che non va confusa con la semplice filantropia naturale. Il documento del Pontificio Consiglio della Cultura lo ricorda con le parole del sacerdote ortodosso e filosofo russo Pavel Florenskij (1882-1937), definito «cantore russo della bellezza, martire del XX secolo» (muore, infatti, fucilato per ordine del regime comunista l’8 dicembre 1937, dopo anni di detenzione in un GULag). Scrive Florenskij commentando un passo del Vangelo di san Matteo (5, 16): «I vostri “atti buoni” non vuole affatto dire “atti buoni” in senso filantropico e moralistico: tà kalà erga vuol dire “atti belli”, rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale – soprattutto, un volto luminoso, bello, di una bellezza per cui si espande all’esterno “l’interna luce” dell’uomo, e allora vinti dall’irresistibilità di questa luce, gli uomini lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora» (III.3). Vi è qui una differenza fra il testo vaticano del 2006 e il volume che raccoglie i contributi di Corrêa de Oliveira. Lo schema generale è analogo, ma gli esempi di kalà, di «atti belli», nel documento del Pontificio Consiglio della Cultura sono i grandi eventi che segnano la presenza nel mondo della Chiesa (anzitutto la liturgia) e le vite dei santi. Corrêa de Oliveira, da laico, aggiunge esempi tratti dall’ordine temporale. Belle possono essere anche la testimonianza di chi ha guidato un popolo o uno Stato in armonia con la buona dottrina e le esigenze del bene comune, e la stessa struttura di una società bene ordinata, frutto della consecratio mundi cui è chiamato il laico cattolico nella sua missione temporale.

Si ritrovano qui riflessioni tipiche del pensatore brasiliano sul ruolo «ministeriale» della società temporale, sviluppate nell’opera postuma Note sul concetto di Cristianità. Carattere spirituale e sacrale della società temporale e sua «ministerialità», pubblicata per la prima volta in lingua italiana a cura di Giovanni Cantoni (Thule, Palermo 1998) e riproposta ora nell’originale portoghese in appendice al volume (pp. 263-287). Queste riflessioni hanno avuto un ruolo decisivo per l’organizzazione delle varie associazioni fondate o ispirate da Corrêa de Oliveira, come ho cercato di mostrare nel mio Una battaglia nella notte. Plinio Corrêa de Oliveira e la crisi del secolo XX nella Chiesa (Sugarco, Milano 2008).

Nel volume che recensiamo sono pure presentate riflessioni del pensatore brasiliano sulla nozione di «trans-sfera», che a prima vista potrebbe richiamare a qualcuno idee del pensiero esoterico occidentale dei secoli XIX e XX, che ha talora parlato di una sfera in cui sarebbero depositati ricordi o immagini di tutte le azioni compiute nel corso della storia. Tutto il volume dimostra però il totale ripudio da parte di Corrêa de Oliveira di ogni riferimento all’esoterismo, espressione che per lui ha sempre il significato negativo di dottrina segreta riservata di diritto ai soli iniziati, così che in questo senso un esoterismo cristiano è impossibile. La «trans-sfera» è in realtà qualche cosa di più semplice di quanto l’espressione, non comune, potrebbe a prima vista lasciare intendere. Si tratta della sfera in cui, per così dire, passano le azioni della storia diventando «immagini» (p. 173) dello spirito: qualche cosa che non corrisponde esattamente ai fatti storici come realmente si sono svolti ma piuttosto al modo in cui si depositano nell’immaginario collettivo e influiscono sulle epoche posteriori. Si può parlare di «leggenda» (p. 183), distinguendo il senso etimologico di fatti di cui merita leggere dal senso corrente di racconti per il «sognatore» (ibid.), e certo anche di «mito»: precisando però che questa espressione ha «un senso cattivo e un senso buono» (p. 168), e il primo non deriva solo dal linguaggio corrente ma anche da un’antropologia di tipo relativista e «indigenista» (ibid.) che vorrebbe sostenere la superiorità del pensiero mitologico dei cosiddetti primitivi rispetto al pensiero logico.

Fatti negativi e positivi, come l’offesa recata al Papato nella persona di Bonifacio VIII (1230-1303) nell’episodio dello schiaffo di Anagni del 1303 (p. 176) o le gesta di santa Giovanna d’Arco (1412-1431: cfr. pp. 170-171) sono passate nell’immaginario collettivo in un modo che forse non corrisponde esattamente a come si sono svolti precisamente i fatti storici: e tuttavia è proprio la versione della «trans-sfera» di questi accadimenti che ha influenzato in modo decisivo eventi successivi, anche a distanza di molti secoli. Da un certo punto di vista «la leggenda è più importante della storia; la storia delle leggende è più importante della storia degli uomini» (p. 183). Forse la meditazione più significativa sulla «trans-sfera» riguarda un fenomeno importante per la storia del Portogallo e del Brasile, assai meno conosciuto fuori di questi Paesi: il sebastianismo. Il re del Portogallo Sebastiano I (1554-1578) scomparve nel 1578 combattendo contro i musulmani in Marocco. Il suo corpo non fu mai trovato, e di qui nacque la leggenda che questo giovane «re vergine» non fosse morto ma fosse entrato in uno stato di occultamento da cui sarebbe un giorno tornato quando la nazione portoghese avesse avuto bisogno di lui. Nel corso dei secoli il sebastianismo – di cui gli storici indagano le relazioni con il mito sciita dell’imam nascosto, che i portoghesi avevano conosciuto nei loro viaggi in Oriente – ha dato origine a veri e propri nuovi movimenti religiosi messianici e apocalittici, sia in Portogallo sia in Brasile. Per altri versi, il mito di Sebastiano I è pure stato utile alla causa dell’identità nazionale e cattolica portoghese in varie epoche storiche. Corrêa de Oliveira vede nel mito sebastianista un esempio caratteristico dei fenomeni della «trans-sfera». «Può darsi che il re Sebastiano non abbia compiuto alcune delle gesta che sono alla base della sua leggenda. Ma questa non è la cosa più importante. La cosa più importante è che nella storia sia potuta sorgere una tale leggenda» (p. 183).

Beninteso, il sebastianismo come attesa del ritorno fisico di Sebastiano I è un errore. Ma il mito è letteralmente pieno di contenuti profondi. Afferma Corrêa de Oliveira: «Per me l’uomo simbolo del Portogallo è un nome che non pronuncio mai senza emozione, perché ho l’impressione che su di esso scendano tutte le grazie cui il Portogallo era chiamato: il re Sebastiano. Del re Sebastiano si narrano cose per cui sembra più un angelo che un uomo. Quale altra figura si trova nella storia che, dopo la morte, lascia dietro di sé una leggenda come quella sebastianista?« (p. 171). «Come tutte le altre nazioni d’Europa, il Portogallo già cominciava a essere corrotto dal Rinascimento. Ma lì fioriva pure qualche cosa di fondamentalmente opposto al Rinascimento. E quando il re fosse tornato dall’Africa con la fronte aureolata dalla gloria di non so quante vittorie, dopo avere esteso il potere del Portogallo nel Nord dell’Africa, allo zenit dell’Europa sarebbe brillato un principe medioevale. L’onore della cavalleria agonizzante sarebbe rifulso di nuovo; la tesi secondo cui il potere temporale esiste per il servizio all’autorità spirituale avrebbe brillato di nuovo; e di fronte a un tipo umano magnifico sarebbero impalliditi i modelli corrotti che il Rinascimento applaudiva» (pp. 171-172). «I portoghesi sognavano il re Sebastiano ma nella realtà venne per il Portogallo qualcuno di molto più alto: venne Nostra Signora. Non venne un re vergine, ma venne la Vergine delle Vergini» (p. 172) a proclamare a Fatima che «in Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede», non una piccola promessa per una nazione che nel 1917 ormai non era più grande. La verità del mito del re Sebastiano – così esposto a interpretazioni pericolose – sta per il pensatore brasiliano nel misterioso preannuncio delle apparizioni di Fatima.

Vale per Sebastiano I quanto Corrêa de Oliveira afferma di Carlo Magno (742-814): «ci sono due Carlo Magno: il Carlo Magno storico e quello della trans-sfera. Possiamo dire che il secondo non è il Carlo Magno “reale” ma nello stesso tempo che è più profondo del Carlo Magno “reale”. E questo Carlo Magno “irreale” opera, il suo ricordo genera conseguenze. La storia del mondo sarebbe certamente diversa se, dopo la sua morte fisica, scomparisse anche il Carlo Magno della trans-sfera» (p. 169). Né si devono opporre – aggiungo – in modo troppo rigido la storia «come si è svolta veramente», che sarebbe il campo proprio degli storici di professione, e la storia come è entrata nell’immaginario collettivo. Un grande storico accademico come Marco Tangheroni (1946-2004) – che di Corrêa de Oliveira fu attento e affezionato lettore – ci ricorda che anche chi ha la storia per professione «deve fare una scelta tra gli infiniti fatti: se volesse riprodurli tutti egli non sarebbe meno pazzo di un geografo che volesse riprodurre la Terra in scala 1:1 e avrebbe bisogno, pertanto, di un altro pianeta di analoghe dimensioni!» (Della storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gomez Dávila, Sugarco, Milano 2008, p. 88). Certo, il rapporto che la storiografia accademica intrattiene con le fonti e i documenti la pone su un piano diverso rispetto alla memoria storica presente nel corpo sociale in genere. E tuttavia a modo suo anche la comunità degli storici di professione, proprio in quanto non può riprodurre il passato «in scala 1:1» ma opera delle scelte, contribuisce alla costruzione dei «miti» relativi a personaggi ed episodi della storia.

Di fronte a queste pagine può nascere un’obiezione, che il testo non manca di affrontare nei capitoli finali. Non si tratterà di una fuga dalla realtà prodotta da spiriti romantici che si occupano della bellezza, dell’arte, delle leggende anziché della vita concreta e reale? Chiunque conosca l’avventura umana di Corrêa de Oliveira risponde facilmente a questa obiezione. Il pensatore brasiliano era precisamente il contrario di un romantico fuori della realtà: fu uomo politico (nel 1933 fu eletto deputato, il più giovane e il più votato di tutto il Brasile), direttore di giornali, fondatore e guida di associazioni importanti e numerose in diversi Paesi del mondo. Ma l’obiezione resta, e ricorda quella – che si può far risalire ultimamente al marxismo – affrontata da Benedetto XVI nella parte finale dell’enciclica Spe salvi: la stessa speranza cristiana, che ha come punto di riferimento la vita eterna, non è una fuga dalla vita terrena concreta, dalle grandi questioni della storia e della politica? Il Pontefice risponde che è sufficiente guardare ai frutti: il cristianesimo, con lo sguardo rivolto alla vita eterna, ha aiutato l’uomo concreto mentre le ideologie, che proclamavano di occuparsi davvero della vita terrena, hanno piuttosto arrecato rovine e morte.

Corrêa de Oliveira risponde a sua volta che la «contemplazione sacrale» della bellezza non è destinata a rimanere tra quattro mura, ma a uscirne per cambiare il mondo. Da questo punto di vista, è precisamente il contrario del romanticismo, simboleggiato da «due solitari, in un locale appartato, che si contemplano l’un l’altro ignorando tutto quanto sta loro intorno» (p. 180). Il romanticismo è «lo sviamento di quella che si potrebbe chiamare nostalgia di Dio» (ibid.). Parte da quella «nostalgia di Dio» che spinge l’anima a percorrere la via pulchritudinis tramite la trasparenza e la trascendenza delle realtà create verso l’Assoluto, ma la svia verso il sentimentalismo. «Il romanticismo fu uno degli artifici più terribili concepiti dalla Rivoluzione. Prima di lui l’umanesimo, alla fine del Medioevo, costituì il sogno dell’antica Roma. Poi ci fu il sogno cartesiano. Anche il razionalismo e l’illuminismo sono forme di sogno. Il sogno tipico del secolo XIX fu la vita romantica» (ibid.).

Finalmente, chiunque di noi abbia conosciuto la «vita bella» di uno spirito giusto sa quanto questa bellezza sia la realtà più concreta che possiamo incontrare su questa Terra e ci ispiri non a fuggire dal mondo ma a cercare di trasformarlo cercando d’imitare chi abbiamo avuto la grazia d’incontrare. La stessa vita di Corrêa de Oliveira, da questo punto di vista, è una testimonianza resa al pulchrum. E a quanti, come chi scrive, hanno conosciuto la bellezza della santità – e la scuola contro-rivoluzionaria – frequentando in Italia Alleanza Cattolica non può non apparire significativo l’essersi trovati a meditare su questo tema nell’anno della scomparsa di Enzo Peserico (1959-2008), che di tante iniziative di Alleanza Cattolica fu instancabile animatore e la cui «vita bella» rimane per i molti cui ha fatto del bene una porta verso quell’Assoluto in cui il vero, il bene e il bello necessariamente convergono.
Guido Giraudo
. Giornalista, autore di testi di canzoni (nota la sua collaborazione per anni con "Gli Amici del Vento"), vero e proprio mito nel mondo della destra italiana, Guido Giraudo è un personaggio poliedrico di cui non è facile parlare. Nella zona di Brea è conosciuto come "Grampasso". Tuttavia, il suo vero nome è "Aragorn": Aragorn, figlio di Arathorn, capitano dei Numenoreani. In alto elfico il suo nome suona deciamente più poetico: "Elessar Telcontar".


DOCUMENTO FINALE DELL'ASSEMBLEA PLENARIA

La Via pulchritudinis,
Cammino privilegiato di evangelizzazione e di dialogo



«Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con Lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo».

Benedetto XVI
Omelia durante la S .Messa per l’inizio del Pontificato
24 aprile 2005



INTRODUZIONE

Il tema scelto per l’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, che si è tenuta dal 27 al 28 marzo 2006, è in continuità con le precedenti assemblee, e in armonia con la missione del Dicastero che è quella di aiutare la Chiesa a trasmettere la fede in Cristo mediante una pastorale che risponda alle sfide della cultura contemporanea, specialmente all’indifferenza religiosa e alla non credenza (Motu proprio Inde a Pontificatus). Con progetti e proposte concrete, questo Consiglio desidera aiutare i pastori, seguendo la via pulchritudinis, come cammino di evangelizzazione delle culture e di dialogo con i non credenti, a condurre a Cristo, che è «la Via, la verità e la vita» (Gv 14, 6).


I. UNA SFIDA CRUCIALE.

La Plenaria del 2002 sul tema «Trasmettere la fede nel cuore delle culture, novo millennio ineunte»[1], e quella del 2004 su «La fede cristiana all’alba del nuovo millennio e la sfida della non credenza e dell’indifferenza religiosa»[2] hanno sottolineato l’urgenza di un nuovo slancio apostolico della Chiesa per evangelizzare le culture, attraverso una inculturazione effettiva del Vangelo.
1. La cultura segnata da una visione materialistica e atea caratteristica delle società secolarizzate, suscita un vero e proprio allontanamento, e talvolta una messa sotto accusa della religione, in particolare del cristianesimo e soprattutto un nuovo anti-cattolicesimo[3]. Molti vivono come se Dio non esistesse (Etsi Deus non daretur), come se la sua presenza e la sua parola non potessero influenzare in alcun modo la vita concreta delle persone e delle società. Essi hanno difficoltà ad affermare chiaramente la loro appartenenza religiosa: quest’ultima rientrerebbe esclusivamente nell’ambito della vita privata. L’esperienza religiosa, di conseguenza, è dissociata spesso da una chiara appartenenza ad una istituzione ecclesiale: alcuni credono senza appartenere, mentre altri appartengono senza dare segni visibili del loro credere.
2. Il fenomeno della nuova religiosità e le spiritualità emergenti, che si diffondono nel mondo, si ergono come una grande sfida per la nuova evangelizzazione: esse pretendono di rispondere meglio della Chiesa – o, comunque, meglio delle forme religiose tradizionali – alle attese spirituali, emotive e psicologiche dei nostri contemporanei e, attraverso riti sincretistici e pratiche esoteriche, esse toccano nel vivo l’emotività delle persone in una dinamica comunitaria pseudo-religiosa che, spesso, le soffoca, privandole addirittura della loro libertà e della loro dignità[4].
3. Se in alcuni paesi storicamente cristiani i praticanti non costituiscono più, come in un recente passato, la maggioranza della popolazione, essi rimangono una forza viva capace di testimoniare, con discernimento e coraggio, nel cuore di una cultura neopagana. Le Giornate mondiali della Gioventù, i grandi raduni in occasione dei Congressi eucaristici nonché nei santuari mariani, il proliferare dei luoghi di risveglio spirituale e il bisogno sempre più forte di soggiorni silenziosi nelle foresterie dei monasteri, la riscoperta delle antiche vie di pellegrinaggio e il fiorire di una moltitudine di nuovi movimenti religiosi che raggiungono giovani e adulti, le folle immense che si sono accalcate a Roma alla morte di Giovanni Paolo II e all’elezione di Benedetto XVI, sono altrettanti segni di speranza: «Sì, la Chiesa è viva - testimoniava il Santo Padre nella sua omelia per la messa d’inizio del Pontificato - questa è la meravigliosa esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del Papa [Giovanni Paolo II] questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi»[5] .


II. LA CHIESA PROPONE UNA RISPOSTA: LA VIA PULCHRITUDINIS.

II.1 Accettare la sfida.
Di fronte alle sfide storiche, sociali, culturali e religiose raccolte nelle due precedenti Assemblee plenarie, quali aspetti della pastorale la Chiesa è chiamata a privilegiare nel suo dialogo apostolico con gli uomini e le donne del nostro tempo, specialmente i non credenti e gli indifferenti?
La Chiesa compie la sua missione che è quella di portare gli uomini a Cristo Salvatore mediante la condivisione della Parola di Dio e il dono dei Sacramenti della Grazia. Per meglio raggiungerli, attraverso una pastorale della cultura, adattata alla luce del Cristo contemplato nel mistero della sua Incarnazione (cf. Gaudium et spes, n. 22), essa scruta i segni dei tempi e vi trova preziose indicazioni per gettare «ponti» che permettano di incontrare il Dio di Gesù Cristo attraverso un itinerario di amicizia in un dialogo di verità.
In tale prospettiva, la Via pulchritudinis si presenta come un itinerario privilegiato per raggiungere molti di coloro che hanno grandi difficoltà a ricevere l’insegnamento, soprattutto morale, della Chiesa. Troppo spesso, in questi ultimi decenni, la verità ha risentito del fatto di essere strumentalizzata dall’ideologia e la bontà di essere «orizzontalizzata», ridotta ad essere unicamente un atto sociale, come se la carità verso il prossimo potesse fare a meno di attingere la propria forza all’amore di Dio. Il relativismo, che trova nel pensiero debole una delle sue espressioni più forti, contribuisce, peraltro, a rendere difficile un confronto vero, serio e ragionevole.
La Via della bellezza, a partire dall’esperienza semplicissima dell’incontro con la bellezza che suscita stupore, può aprire la strada della ricerca di Dio e disporre il cuore e la mente all’incontro col Cristo, Bellezza della Santità Incarnata offerta da Dio agli uomini per la loro Salvezza. Essa invita i nuovi Agostino del nostro tempo, cercatori insaziabili d’amore, di verità e di bellezza, ad elevarsi dalla bellezza sensibile alla Bellezza eterna e a scoprire con fervore il Dio Santo Artefice di ogni bellezza.
Non tutte le culture sono in ugual misura aperte al Trascendente e ad accogliere la rivelazione cristiana. Allo stesso modo, tutte le espressioni del bello – o di ciò che ritiene di esserlo – sono lungi dal favorire l’accoglienza del messaggio di Cristo e l’intuizione della sua divina bellezza. Le culture, come le espressioni artistiche e le manifestazioni estetiche, sono segnate dal peccato e possono attirare, perfino catturare l’attenzione fino a farla ripiegare su se stessa suscitando nuove forme di idolatria. Non siamo troppo spesso messi di fronte a fenomeni di vera decadenza in cui l’arte e la cultura si snaturano fino a ferire l’uomo nella sua dignità? Il bello non può essere ridotto ad un semplice piacere dei sensi: sarebbe rifiutarsi di avere piena coscienza della sua universalità, del suo valore supremo, altamente trascendente. La sua percezione richiede un’educazione, poiché la bellezza non è autentica se non nel suo rapporto con la verità – d’altronde, di che cosa sarebbe lo splendore, se non della verità? – ed essa è, al tempo stesso, «l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza» [6] - «Il bello non è forse la strada più sicura per raggiungere il bene? », si chiedeva Max Jacob. Ampiamente accessibile a tutti, la Via della bellezza non è, tuttavia, priva di ambiguità e di deviazioni. Sempre dipendente dalla soggettività umana, essa può essere ridotta ad un estetismo effimero, lasciarsi strumentalizzare ed asservire dalle mode attraenti della società dei consumi. Da ciò nasce l’urgente missione di educare a discernere tra “uti” e “frui”, cioè tra un rapporto con le cose e le persone fondato unicamente sulla funzionalità – uti -, e la relazione credibile e affidabile – frui -, radicata coraggiosamente sulla bellezza della gratuità, memori di quanto scrive Agostino nel suo “De catechizandis rudibus”: “Nulla est enim maior ad amorem invitatio quam praevenire amando” – Non c’è invito più grande all’amore che precedere amando (Lib. I, 4.7, 26).
Perciò, è necessario chiarire che cos’è e in che consiste la Via pulchritudinis: di quale bellezza si tratta, che permetta di trasmettere la fede mediante la sua capacità di raggiungere il cuore delle persone, di esprimere il mistero di Dio e dell’uomo, di presentarsi come un autentico «ponte», spazio libero per camminare con gli uomini e le donne del nostro tempo che sanno o imparano ad apprezzare il bello, e aiutarli ad incontrare la bellezza del Vangelo di Cristo che la Chiesa deve, per sua missione, annunciare a tutti gli uomini di buona volontà.

II.2 In che modo la via pulchritudinis può essere una risposta della Chiesa alle sfide del nostro tempo?
Il Papa Giovanni Paolo II, instancabile indagatore dei segni dei tempi, indica la via nella sua Enciclica Fides et ratio: «Mentre non mi stanco di richiamare l’urgenza di una nuova evangelizzazione, mi appello ai filosofi perché sappiano approfondire le dimensioni del vero, del buono e del bello, a cui la parola di Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se si considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare con sé: esse investono in modo particolare le regioni e le culture di antica tradizione cristiana. Anche questa attenzione deve considerarsi come un apporto fondamentale e originale sulla strada della nuova evangelizzazione»[7].
Questo appello ai filosofi può sorprendere, ma la via pulchritudinis non è forse una via veritatis sulla quale l’uomo si impegna per scoprire la bonitas del Dio d’amore, fonte di ogni bellezza, di ogni verità e di ogni bontà? Il bello, come pure il vero o il bene, ci conduce a Dio, Verità prima, Bene supremo e Bellezza stessa. Ma il bello dice più del vero o del bene. Dire di un essere che è bello non significa solo riconoscergli una intelligibilità che lo rende amabile. E’ dire, nello stesso tempo, che specificando la nostra conoscenza, esso ci attira, anzi ci cattura attraverso un influsso capace di suscitare meraviglia. Se esso esprime un certo potere di attrazione, ancor più, forse, il bello esprime la realtà stessa nella perfezione della sua forma. Esso ne è l’epifania. Esso la manifesta esprimendo la sua intima chiarezza [8]. Se il bene esprime il desiderabile, il bello esprime ancor più lo splendore e la luce di una perfezione che si manifesta [9] .
La via pulchritudinis è una via pastorale che non si può ridurre ad un approccio filosofico. Ma lo sguardo del metafisico ci aiuta a capire perché la bellezza è una via regale per condurre a Dio. Nel suggerirci chi Egli è, essa suscita in noi il desiderio di goderne nella pace della contemplazione, non soltanto perché Lui solo può soddisfare le nostre intelligenze e i nostri cuori, ma anche perché Egli contiene in se stesso la perfezione dell’Essere, fonte armoniosa e inesauribile di chiarezza e di luce. Per giungervi, è importante saper compiere il passaggio «dal fenomeno al fondamento». E’ di nuovo l’appello del papa filosofo: «Ovunque l’uomo scopre la presenza di un richiamo all’assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell’essere stesso, in Dio. Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge » [10] .
Questo passaggio dal fenomeno al fondamento non avviene spontaneamente per chi non sia in grado di passare dal visibile all’invisibile perché una certa abitudine alla bruttezza, al cattivo gusto, alla volgarità, si vede promossa sia dalla pubblicità sia da alcuni «artisti folli» che fanno dell’immondo e del brutto un valore, al fine di suscitare scandalo. I fiori capziosi del male affascinano: «Vieni dal cielo profondo o esci dall’abisso, o Bellezza?», si chiede Baudelaire. E Dmitrij Karamazov confida a suo fratello Alëša: «La Bellezza è una cosa terribile. E’ la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore». Se la bellezza è l’immagine di Dio creatore, essa è anche figlia di Adamo ed Eva e, sulla loro scia, segnata dal peccato. L’uomo spesso rischia di lasciarsi intrappolare dalla bellezza presa in se stessa, icona divenuta idolo, mezzo che inghiottisce il fine, verità che imprigiona, trappola in cui cade un gran numero di persone, per mancanza di un’adeguata formazione della sensibilità e di una corretta educazione alla bellezza.
Percorrere la Via pulchritudinis implica impegnarsi a educare i giovani alla bellezza, aiutarli sviluppare uno spirito critico di fronte all’offerta della cultura mediatica, e a plasmare la loro sensibilità e il loro carattere per elevarli e condurli ad una reale maturità. La «cultura kitsch» non è caratteristica di una certa paura di sentirsi spinto ad una profonda trasformazione? Dopo aver a lungo rifiutato questa «passione», Sant’Agostino ricorda la trasformazione profonda dell’anima grazie all’incontro con la bellezza di Dio: nelle Confessioni egli ripensa con tristezza e amarezza al tempo perduto e alle occasioni mancate e, in pagine indimenticabili, rivede il suo percorso tormentato alla ricerca della verità e di Dio. Ma, in una specie di illuminazione nell’evidenza, egli ritrova Dio e lo coglie come «la Verità in persona» (X, 24), fonte di gioia pura e di autentica felicità: «Tardi t’amai, bellezza così antica, così nuova, tardi t’amai! Ed ecco, tu eri dentro di me ed io fuori di me ti cercavo e mi gettavo deforme sulle belle forme della tua creazione… Tu hai chiamato e gridato, hai spezzato la mia sordità, hai brillato e balenato, hai dissipato la mia cecità, hai sparso la tua fragranza ed io respirai, ed ora anelo verso di te; ti ho gustata ed ora ho fame e sete, mi hai toccato, ed io arsi nel desiderio della tua pace»[11]. Quest’esperienza dell’incontro con il Dio della Bellezza è un avvenimento vissuto nella totalità dell’essere e non solo nella sensibilità. Di qui la confessione del De musica (6, 13, 38): «Num possumus amare nisi pulchra? – Che altro si può amare se non le cose belle?».

II.3 La Via pulchritudinis, via verso la Verità e la Bontà.
Proponendo un’estetica teologica, Hans Urs von Balthasar intendeva aprire gli orizzonti del pensiero alla meditazione e alla contemplazione della bellezza di Dio, del suo mistero e del Cristo in cui Egli si rivela. Nell’introduzione al primo volume della sua opera magistrale, Gloria, il teologo cita la parola bellezza «che per noi sarà la prima» e ne esprime la portata in rapporto al bene che «anche ha perduto la sua forza di attrazione» e in cui «gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica» [12]. Parallelamente, con altre preoccupazioni, Aleksandr I. Solženicyn nota con accento profetico, nel suo Discorso per la consegna del Premio Nobel per la Letteratura: «Questa antica triunità della Verità, del Bene e della Bellezza non è semplicemente una caduca formula da parata, come ci era sembrato ai tempi della nostra presuntuosa giovinezza materialistica. Se, come dicevano i sapienti, le cime di questi tre alberi si riuniscono, mentre i germogli della Verità e del Bene, troppo precoci e indifesi, vengono schiacciati, strappati e non giungono a maturazione, forse strani, imprevisti, inattesi saranno i germogli della Bellezza a spuntare e crescere nello stesso posto e saranno loro in tal modo a compiere il lavoro per tutti e tre»[13].
Così, ben lungi dal rinunciare a proporre la Verità e il Bene che sono nel cuore del Vangelo, bisogna seguire una via che permetta ad essi di raggiungere il cuore dell’uomo e delle culture[14]. Il mondo ne ha urgente bisogno, come sottolineava Papa Paolo VI nel suo vibrante Messaggio agli Artisti dell’8 dicembre 1965, alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II: «Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione»[15]. Contemplata con animo puro, la bellezza parla direttamente al cuore, eleva interiormente dallo stupore alla meraviglia, dall’ammirazione alla gratitudine, dalla felicità alla contemplazione. Perciò, crea un terreno fertile per l’ascolto e il dialogo con l’uomo e per afferrarlo interamente, mente e cuore, intelligenza e ragione, capacità creatrice e immaginazione. Essa, infatti, difficilmente lascia indifferenti: suscita emozioni, mette in moto un dinamismo di profonda trasformazione interiore che genera gioia, sentimento di pienezza, desiderio di partecipare gratuitamente a questa stessa bellezza, di appropriarsene interiorizzandola e inserendola nella propria concreta esistenza.
La via della bellezza risponde all’intimo desiderio di felicità che alberga nel cuore di ogni uomo. Essa apre orizzonti infiniti, che spingono l’essere umano ad uscire da se stesso, dalla routine e dall’effimero istante che passa, ad aprirsi al Trascendente e al Mistero, a desiderare, come scopo ultimo del suo desiderio di felicità e della sua nostalgia di assoluto, questa Bellezza originale che è Dio stesso, Creatore di ogni bellezza creata. Molti Padri hanno fatto riferimento a ciò durante il Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia, nell’ottobre 2005. L’uomo nel suo intimo desiderio di felicità, può trovarsi messo di fronte al male della sofferenza e della morte. Allo stesso modo, le culture sono talvolta messe di fronte a dei fenomeni analoghi di ferite, che possono condurre fino alla loro scomparsa. La voce della bellezza aiuta ad aprirsi alla luce della verità, e illumina così la condizione umana aiutandola a cogliere il significato del dolore. In questo modo, essa favorisce la guarigione di queste ferite.


III. LE VIE DELLA BELLEZZA.

Tre sviluppi si offrono a noi come vie privilegiate della Via pulchritudinis, per dialogare con le culture contemporanee:
III.1 La bellezza della creazione
III.2 La bellezza delle arti
III.3 La bellezza di Cristo, modello e prototipo della santità cristiana
La Bellezza di Dio, rivelata dalla bellezza singolare di suo Figlio, costituisce l’origine e il fine di tutto il creato. Se è possibile partire dal grado più elementare, per poi risalire, secondo un dinamismo inscritto nelle Sacre Scritture, dalla bellezza sensibile della natura alla Bellezza del Creatore, quest’ultima risplende in maniera unica sul volto di Cristo e su quello di sua Madre e dei santi. Per il cristiano «creazione» è inseparabile da «ricreazione», poiché se Dio ha giudicato buona e bella l’opera dei sei giorni (cf. Gn 1), il peccato, con il disordine, ha introdotto la bruttezza della morte e del male. «Felice colpa, che meritò di avere un così grande Redentore!», canta la liturgia di Pasqua: la Grazia, che si riversa sul mondo dal costato aperto di Cristo Salvatore, purifica e introduce in tutt’altra bellezza il mondo salvato che attende gemendo l’ora della trasformazione finale (Rm 8, 22).



III.1 La bellezza della creazione.
La Scrittura sottolinea il valore simbolico della bellezza del mondo che ci circonda: «Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere…Se…li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza» (Sap 13, 1.3). C’è, tuttavia, un abisso tra la bellezza ineffabile di Dio e le sue vestigia nella creazione, pertanto l’autore sacro non ritiene inutile precisare il quadro di tale «dialettica ascendente»: «…dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore » (v. 5). Occorre, perciò, superare le forme visibili delle cose della natura, per risalire fino al loro Autore invisibile, il Tutt’Altro, che noi professiamo nel Credo: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra».

A) La meraviglia davanti alla bellezza della creazione. «La natura è un tempio in cui dei pilastri vivi lasciano talvolta uscire confuse parole…» Se i poeti sono, con Baudelaire[16], particolarmente sensibili alle bellezze della creazione e al loro misterioso linguaggio, è perché dalla contemplazione di un paesaggio al tramonto, delle cime dei monti innevate sotto il cielo stellato, dei campi coperti di fiori inondati di luce, del rigoglio delle piante e delle specie animali nasce una varietà di sentimenti che ci invitano a «leggere dall’interno – intus-legere», per raggiungere dal visibile l’invisibile e dare risposta alle domande: chi è questo artefice dall’immaginazione così potente all’origine di tanta bellezza e grandezza, di una simile profusione di esseri nel cielo e sulla terra? [17].
Nello stesso tempo la contemplazione delle bellezze della creazione suscita la pace interiore e affina il senso dell’armonia e il desiderio di una vita bella. Nell’uomo religioso, lo stupore e l’ammirazione si trasformano in atteggiamenti interiori più spirituali: l’adorazione, la lode e l’azione di grazie verso l’Autore di tali bellezze. Così il salmista: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi… O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!» (Sal 8, 4-7.10). La tradizione francescana, con san Bonaventura e Giovanni Scoto Eriugena[18], riconosce una dimensione «sacramentale» alla creazione, che porta in se stessa le tracce delle sue origini. Inoltre, la natura stessa è considerata come un’allegoria, e ogni realtà creata simbolo del suo Creatore

B) Dalla creazione alla ricreazione. Tra le creature ce n’è una che presenta una certa somiglianza con Dio: l’uomo, creato «a sua immagine e somiglianza». Con la sua anima spirituale, egli porta in sé un «germe d’eternità irriducibile alla sola materia» (Gaudium et spes, 18). Ma l’immagine è stata alterata dal primo peccato, veleno che indebolisce la volontà nel suo orientamento verso il bene e, quindi, offusca l’intelligenza e vizia la sensibilità. La bellezza dell’anima, assetata di verità e slancio verso il beneamato, perde il suo splendore e diventa capace di operare il male, il brutto: un bambino testimone di un’azione cattiva non dice spontaneamente: «Non è bello»? Così la bruttezza – e dunque a fortiori il bene – appare nel campo della morale e si riflette sull’uomo, suo soggetto. Con il peccato, questi ha perso la sua bellezza e si vede nudo fino a provarne vergogna. La venuta del Redentore lo riporta alla sua bellezza originaria, anzi lo riveste di una bellezza nuova: la bellezza inimmaginabile della creatura elevata alla filiazione divina, la trasfigurazione promessa dell’anima redenta ed innalzata dalla grazia, lo splendore in tutte le fibre del suo corpo chiamato a resuscitare.
Se Cristo, Nuovo Adamo, «svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, 22), lo sguardo cristiano sulla bellezza della creazione trova il suo compimento nella sconvolgente notizia della ricreazione: il Cristo, rappresentazione perfetta della gloria del Padre, comunica all’uomo la sua pienezza di grazia. Egli lo rende «grazioso» vale a dire bello e gradito a Dio. L’Incarnazione è il centro focale, la giusta prospettiva in cui la bellezza assume il suo significato ultimo.:«”Immagine del Dio invisibile” (Col 1, 15), Cristo Signore è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata ad una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo». Torneremo ancora su questo argomento, la bellezza della santità che emana dall’uomo conformato a Cristo, sotto il soffio dello Spirito Santo, è una delle più belle testimonianze in grado di scuotere i più indifferenti e di far sentire loro il passaggio di Dio nella vita degli uomini.
In un’azione di grazie continua, il cristiano loda il Cristo che gli ha ridato vita e si lascia trasfigurare da questo dono glorioso che gli viene fatto. I nostri occhi avidi di bellezza si lasciano attrarre dal Nuovo Adamo, vera icona del Padre eterno, «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1, 3). Ai «puri di cuore» ai quali è stato promesso che vedranno Dio faccia a faccia, Cristo concede già di intravedere la luce della gloria nel cuore stesso della notte della fede.

C) La creazione, utilizzata o idolatrata. Sono, tuttavia, numerosi gli uomini e le donne che vedono la natura e il cosmo solo nella loro materialità visibile, universo muto che avrebbe il solo destino di obbedire alle fredde e immutabili leggi fisiche, senza evocare nessun’altra bellezza, ancor meno un Creatore. In una cultura in cui lo scientismo impone i limiti del suo metodo di osservazione fino a farne il criterio esclusivo di conoscenza, il cosmo viene ridotto ad essere soltanto un immenso serbatoio al quale l’uomo attinge fino ad esaurirlo, in funzione dei suoi bisogni crescenti, smisurati.
Il Libro della Sapienza mette in guardia contro tale miopia che San Paolo denuncia come un «peccato di orgoglio e di presunzione» (Rm 1, 20-23). Del resto, la creazione non è muta: i fenomeni naturali straordinari, talvolta tragici, registrati in questi ultimi anni, e i disastri ecologici che si moltiplicano senza tregua, determinano una nuova comprensione della natura, delle sue leggi, della sua armonia. Risulta sempre più evidente, per molti dei nostri contemporanei, che la natura non può né deve essere manipolata senza rispetto.
Non bisogna, però, fare della natura un assoluto, addirittura un idolo, come avviene in alcuni gruppi neopagani: il suo valore non può oltrepassare la dignità dell’uomo chiamato ad esserne il custode.

Proposte pastorali.
Una particolare attenzione alla natura aiuta a scoprire in essa lo specchio della bellezza di Dio. Pertanto è urgente promuovere una maggiore attenzione nei confronti della creazione e della sua bellezza, sia nella formazione umana sia in quella cristiana, evitando di ridurla a semplice ecologismo, addirittura ad una visione panteista. Alcuni movimenti – scoutismo, Azione Cattolica Ragazzi (ACR) – si impegnano ad educare all’osservazione della natura e a sensibilizzare alla sua protezione. Essi aiutano i giovani a scoprire il progetto creatore di Dio, nel momento in cui destano in loro i sentimenti legati alla meraviglia, all’adorazione e all’azione di grazie. Bisognerà essere attenti a metter in luce la duplice dimensione dell’ascolto
- ascolto della creazione che narra la gloria di Dio,
- e ascolto di Dio che ci parla attraverso la sua creazione e si rende accessibile alla ragione, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano I (Dei Filius, Ch. 2, can. 1).
La catechesi, nel suo sforzo di formazione dei bambini e dei giovani, trae vantaggio a sviluppare una pedagogia dell’osservazione delle bellezze naturali e degli atteggiamenti umani fondamentali che vi si riferiscono: silenzio, ascolto, ammirazione, interiorizzazione, pazienza nell’attesa, scoperta dell’armonia, rispetto dell’equilibrio naturale, senso della gratuità, adorazione e contemplazione.
L’insegnamento di una autentica filosofia della natura e di una bella teologia della Creazione meriterebbe un nuovo slancio in una cultura in cui il dialogo tra scienza e fede è di particolare importanza, in cui gli intellettuali hanno il dovere di possedere un minimo di conoscenze epistemologiche e gli scienziati misconoscono troppo spesso l’immenso profitto che si può trarre dalla sapienza cristiana[19]. I pregiudizi scientisti e il fideismo sono ancora troppo spesso presenti nella mentalità comune, perciò è di fondamentale importanza suscitare a tutti i livelli – negli Istituti scolastici cattolici, gli Istituti di formazione, le Università, i Centri Culturali Cattolici, ecc. – occasioni di incontro e di dialogo tra uomini di scienza e di fede. In questo quadro, il Giubileo degli Scienziati, celebrato durante il Grande Giubileo del 2000, ha fatto sorgere nuove iniziative culturali destinate a rinnovare il dialogo tra scienza e fede [20]. Tra queste, il progetto STOQ (Science, Theology and Ontological Quest), promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura in collaborazione con diverse Università pontificie. Per altro, ogni branca del sapere – filosofia, teologia, scienze umane e sociali, psicologia – può contribuire allo svelamento della bellezza di Dio e della sua creazione.
Le azioni in favore della difesa della natura, dell’habitat naturale, organizzate da comunità cristiane o da famiglie religiose che si ispirano all’esempio di San Francesco che «contemplava il Bellissimo nelle cose belle» [21], hanno una certa eco e contribuiscono allo sviluppo di una visione meno «idolatrica» della natura. La Lettera pastorale dei Vescovi Australiani del Queensland dal titolo suggestivo: Let the Many Coastlands Be Glad! A Pastoral Letter on the Great Barrier Reef, ne è un esempio. È importante moltiplicare le iniziative per trasmettere, nella cultura contemporanea, il senso del valore autentico della natura, della sua bellezza e della sua potenza simbolica e della sua capacità di far scoprire l’opera creatrice di Dio.


III.2 La bellezza delle arti.
Se la natura e il cosmo sono espressione della bellezza del Creatore e introducono alla soglia di un silenzio tutto contemplativo, la creazione artistica possiede la capacità di evocare l’indicibile del mistero di Dio. L’opera d’arte non è «la bellezza», ma ne è l’espressione e, se obbedisce a dei canoni per natura fluttuanti: ogni arte è legata ad una cultura, essa possiede un carattere intrinseco di universalità. La bellezza artistica suscita emozione interiore, provoca nel silenzio il rapimento e conduce all’«uscita da sé», all’estasi.
Per il credente, la bellezza trascende l’estetica e il bello trova il suo archetipo in Dio. La contemplazione di Cristo nel suo mistero d’Incarnazione e Redenzione è la fonte viva alla quale l’artista cristiano attinge la propria ispirazione per esprimere il mistero di Dio e il mistero dell’uomo salvato in Gesù Cristo. Ogni opera d’arte cristiana ha un senso: essa è, per natura, un «simbolo», una realtà che rimanda al di là di se stessa, che aiuta ad avanzare sulla via che rivela il senso, l’origine e la meta del nostro cammino terreno. La sua bellezza è caratterizzata dalla sua capacità di provocare il passaggio dal «per sé» al «più grande di sé». Tale passaggio si realizza in Gesù Cristo, che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6), la «Verità tutta intera» (Gv 16, 13).

A) La bellezza suscitata dalla fede. Le opere d’arte di ispirazione cristiana, che costituiscono una parte incomparabile del patrimonio artistico e culturale dell’umanità, sono oggetto di una vera infatuazione da parte di folle di turisti, credenti o non credenti, agnostici o indifferenti al fatto religioso. Tale fenomeno è in continuo aumento e raggiunge tutte le categorie della popolazione, senza distinzione di cultura e di religione. La cultura, nel senso di «patrimonio spirituale», si è fortemente «democratizzata»: grazie agli sviluppi straordinari della tecnologia, le opere d’arte si sono avvicinate al «popolo». Ormai, un minuscolo apparecchio elettronico può contenere tutta l’opera di Mozart o Bach, come pure sono alla portata di tutti decine di migliaia di miniature della Biblioteca Vaticana messe su un disco video digitale.
Il volto di Cristo, nella sua singolare bellezza, le scene del Vangelo e i grandi avvenimenti profetici dell’Antico Testamento, il Golgota, la Vergine col Bambino e la Vergine Addolorata hanno rappresentato nel corso dei secoli una sorgente feconda di ispirazione per gli artisti cristiani. In una straordinaria ricchezza immaginativa, questi si sforzano, attraverso una ricerca continua e continuamente rinnovata, di rappresentare la bellezza di Dio rivelata nel Cristo e di renderla più vicina, quasi tangibile e visibile. In qualche modo, l’artista prolunga la Rivelazione operando con le forme, le immagini, i colori o le sonorità. Mostrando quanto è bello Dio, dice quanto egli lo è per l’uomo, come suo proprio bene e verità ultima della sua esistenza. La bellezza cristiana è portatrice di una verità più grande del cuore dell’uomo, verità che supera il linguaggio umano e indica il suo Bene, l’unico essenziale.
I Cardinali di Santa Romana Chiesa non hanno forse percepito tutta la terribile bellezza del Giudizio Universale di Michelangelo, nella Cappella Sistina, nell’atto di eleggere il nuovo Romano Pontefice? Le cattedrali e le chiese d’Oriente e d’Occidente non toccano forse l’apice dello splendore quando una liturgia rifulgente di bellezza vi è celebrata da tutto un popolo ivi radunato? E le abbazie e i monasteri non diventano delle oasi di pace quando vi risuonano le melodie immutabili che, nel corso dei secoli, svolgono la loro funzione di lode, di supplica e di azione di grazie? Tanti uomini e donne, di tutte le epoche e di tutte le culture, hanno provato una profonda emozione fino ad aprire il loro cuore a Dio, contemplando il volto di Cristo in Croce, come a suo tempo Francesco d’Assisi, ascoltando una Passione o un Te Deum oppure inginocchiandosi davanti ad una pala d’altare d’oro o ad una icona bizantina.
Il Papa Giovanni Paolo II, nella sua Lettera agli artisti, ha chiamato ad una nuova epifania della bellezza e ad un nuovo dialogo fede e cultura tra la Chiesa e l’arte, sottolineando il bisogno reciproco dell’una e dell’altra e la fecondità della loro alleanza millenaria dalla quale scaturisce quella «creazione nella bellezza» di cui Platone già parlava nel Simposio [22].
Se l’ambiente culturale condiziona fortemente l’artista, allora sorge la domanda: come essere custodi della bellezza, secondo l’auspicio di von Balthasar, in questa cultura artistica contemporanea in cui la seduzione erotica onnipresente ipertrofizza gli istinti, inquina l’immaginario e inibisce le facoltà spirituali? In fondo, salvare la bellezza non è salvare l’uomo? Non è, questo, il ruolo della Chiesa, «esperta in umanità» ?

B) Imparare ad accogliere questa bellezza. Le opere d’arte ispirate dalla fede cristiana – pitture e mosaici, sculture e architetture, avori e argenti, opere di poesia e prosa, opere musicali e teatrali, cinematografiche e coreografiche e tante altre ancora – hanno un potenziale enorme, sempre attuale, che non si lascia alterare dal tempo che passa: esso consente di comunicare in maniera intuitiva e piacevole la grande esperienza della fede, dell’incontro con Dio in Cristo, nel quale si svela il mistero dell’amore di Dio e l’identità profonda dell’uomo.
Rivolgendosi agli artisti nella Cappella Sistina, il 7 maggio 1964, il Papa Paolo VI denunciava il «divorzio» tra l’arte e il sacro, caratteristico del XX secolo, e osservava che oggi numerosi artisti incontrano grandissime difficoltà a trattare i temi cristiani per mancanza di formazione e di esperienza riguardo alla fede cristiana [23]. La bruttezza di certe chiese e delle loro decorazioni, la loro inadattabilità alla celebrazione liturgica, sono le conseguenze di tale divorzio, di una lacerazione che richiede una cura perché venga sanata. Perciò, è importante rimediare all’ignoranza crescente nel campo della cultura religiosa, per consentire all’arte cristiana del passato e del presente di aprire a tutti la via pulchritudinis[24]. Per essere pienamente «recepita» e capita, l’opera d’arte cristiana ha bisogno di essere letta alla luce della Bibbia e dei testi fondamentali della Tradizione ai quali si riferisce l’esperienza di fede. Se la bellezza va espressa, ne dobbiamo ancora imparare il particolare linguaggio, che suscita ammirazione, emozione e conversione. Se esiste un linguaggio della bellezza, quello dell’opera d’arte cristiana non trasmette soltanto il messaggio dell’artista, ma la verità del mistero di Dio meditato da una persona che di esso ci dà la sua propria lettura, non già per glorificarsi, bensì per glorificarne la Sorgente. L’analfabetismo biblico sterilizza la capacità di comprensione dell’arte cristiana.
Del resto, uno sforzo congiunto dev’essere fatto per superare difficoltà dovute ad un certo clima culturale creato da una critica d’arte ampiamente influenzata da ideologie materialistiche: mettere in evidenza soltanto l’aspetto estetico-formale delle opere, senza interesse per il loro contenuto che ha ispirato tanta bellezza, rende sterile l’arte, inaridisce il flusso vivificante della vita spirituale per rinchiuderla nella sola emozione sensibile.

C) L’arte sacra, strumento di evangelizzazione e di catechesi. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II definiva il patrimonio artistico ispirato dalla fede cristiana «un formidabile strumento di catechesi», fondamentale per «rilanciare il messaggio universale della bellezza e della bontà» (Ai Vescovi di Toscana, 11 marzo 1991). In sintonia con lui, il Cardinale Ratzinger, nella sua veste di Presidente della Commissione speciale preparatoria del Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, motivava così l’introduzione caratteristica delle immagini in questa opera: «… anche l’immagine è predicazione evangelica. Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza. E’ un indizio questo, di come oggi più che mai, nella civiltà dell’immagine, l’immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico» [25].
Il documento del Pontificio Consiglio della Cultura, Per una pastorale della cultura, auspica «Nella nostra cultura, contraddistinta da un diluvio di immagini spesso banali e brutali, quotidianamente riversate dalle televisioni, dai film e dalle videocassette, un’alleanza feconda tra il Vangelo e l’arte» per «nuove epifanie di bellezza, nate dalla contemplazione del Cristo, Dio fatto uomo, dalla meditazione dei suoi misteri, dal loro irraggiamento nella vita della Vergine Maria e dei santi»(n. 36).
Il forte potere di comunicare, dell’arte sacra, rende quest’ultima capace di oltrepassare le barriere e i filtri dei pregiudizi per raggiungere il cuore degli uomini e delle donne di altre culture e religioni, e dar loro modo di cogliere l’universalità del messaggio di Cristo e del suo Vangelo. Perciò, quando un’opera d’arte ispirata dalla fede viene offerta al pubblico nel quadro della sua funzione religiosa, essa si rivela come una «via», un «cammino di evangelizzazione e di dialogo» che dà la possibilità di godere del patrimonio vivo del cristianesimo e, nel contempo, della fede cristiana stessa.
Rileggere le opere d’arte cristiane, grandi o piccole, artistiche o musicali, e ricollocarle nel loro contesto, approfondendo i loro vincoli vitali con la vita della Chiesa, in particolare con la liturgia, vuol dire far «parlare» di nuovo tali opere, consentendo ad esse di trasmettere il messaggio che ne ha ispirato la creazione. La via pulchritudinis, prendendo la via delle arti, conduce alla veritas della fede, a Cristo stesso, divenuto «con l’Incarnazione, icona del Dio invisibile». Giovanni Paolo II non ha esitato a manifestare la sua «convinzione che, in un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei Sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione nell’uno o nell’altro suo aspetto» [26].
Le opere d’arte cristiane offrono al credente un tema di riflessione e un aiuto per entrare in contemplazione in una preghiera intensa, attraverso un momento di catechesi, come anche di confronto con la Storia Sacra. I capolavori ispirati dalla fede sono vere “Bibbie dei poveri”, “scale di Giacobbe” che elevano l’anima fino all’Artefice di ogni bellezza e, con Lui, al mistero di Dio e di coloro che vivono nella sua visione beatifica: «Visio Dei vita hominis» - «vita dell'uomo é la visione di Dio», professa Sant’Ireneo[27]. Sono le vie privilegiate di una autentica esperienza di fede.

Proposte pastorali.
La Lettera agli artisti di Papa Giovanni Paolo II, che costituisce un riferimento fondamentale a tale riguardo, trova larga eco nel documento del Pontificio Consiglio della Cultura, Per una pastorale della cultura [28]. Le conferenze episcopali possono prendere questi due testi come base di partenza per iniziative concrete [29].
Mediante un’educazione appropriata, bisogna iniziare al linguaggio della bellezza e sviluppare la capacità di cogliere il messaggio dell’arte cristiana: ciò che fa belle le opere e, soprattutto, ciò che in esse favorisce un incontro col mistero di Cristo. In questo campo, si manifesta una presa di coscienza e si assiste ad una significativa ripresa degli studi sull’arte sacra cristiana, ormai meglio conosciuta da coloro che hanno il compito di dare una formazione cristiana[30]. Un importante lavoro di riformulazione teorica dell’insegnamento dell’arte sacra a partire da un’autentica visione cristiana sembrerebbe particolarmente necessaria di fronte alle interpretazioni ideologiche e atee largamente diffuse.
Si tratta, inoltre, di creare le condizioni per il rinnovamento della creazione artistica nella comunità cristiana, e quindi allacciare legami personali con gli artisti e aiutarli a cogliere ciò che permette a un’opera d’arte di essere veramente religiosa e degna dell’«arte sacra». Se molto è stato fatto in questi ultimi decenni in numerose diocesi, molto resta ancora da fare per valorizzare il ricchissimo patrimonio culturale e artistico della Chiesa nato dalla fede cristiana, e utilizzarlo come strumento di evangelizzazione, di catechesi e di dialogo. Non basta costruire dei musei: bisogna consentire a questo patrimonio di poter esprimere il contenuto del suo messaggio. Una liturgia veramente bella aiuta a entrare in questo particolare linguaggio della fede, fatto di simboli e di evocazioni del mistero celebrato.
Alcune iniziative già collaudate e, quindi, meritevoli di particolare attenzione:
– Dialogo con gli artisti, pittori, scultori, architetti di chiese da costruire, restauratori, musicisti, poeti, drammaturghi, ecc., per alimentare il loro immaginario alle fonti della fede e, nello stesso tempo, rimanere profondamente radicati nelle diverse culture, per permettere nuove relazioni tra ciò che la Chiesa commissiona e la produzione degli artisti. L’analfabetismo liturgico di alcuni artisti scelti per la costruzione di chiese è un vero dramma largamente diffuso.
– Formazione alla bellezza del mistero cristiano espresso nell’arte sacra, in occasione dell’inaugurazione di una nuova chiesa, di un’opera d’arte, di un concerto, di una liturgia particolare
– Organizzazione di eventi culturali ed artistici - mostre, concorsi a premi, concerti, conferenze, festival, ecc. - , per valorizzare l’immenso patrimonio della Chiesa e il suo messaggio, nonché per favorire una nuova creatività, in particolare nel campo dell’arte e del canto liturgico.
– Pubblicazioni locali sotto forma di dépliant turistici, di pagine web o di riviste più specializzate sul patrimonio, con l’intento pedagogico di mettere in evidenza l’anima, l’ispirazione e il messaggio delle opere, e con un’analisi scientifica volta alla comprensione profonda dell’opera.
– Sensibilizzazione degli operatori pastorali, dei catechisti e degli insegnanti di religione, ma anche dei seminaristi e del clero, attraverso corsi di formazione, seminari, incontri a tema, visite guidate. I Musei diocesani e i Centri culturali cattolici possono svolgere un ruolo importante, specialmente proponendo lo studio delle opere d’arte locali o regionali, e favorirne l’impiego nella catechesi.
– Formazione di guide informate sulla specificità dell’arte di ispirazione cristiana, creazione di gruppi specializzati per la valorizzazione delle opere e di Centri culturali che condividono queste stesse finalità.
– Studio e approfondimento della problematica a livello scolastico e universitario, con dei master, seminari, laboratori, ecc. Proposta di borse di studio o sussidi atti a sensibilizzare le istanze educative. Sviluppo a livello regionale e nazionale di Istituti di Musica sacra, di Liturgia, di Archeologia, ecc. e creazione di biblioteche specializzate in questo campo.


III. 3. La bellezza di Cristo, modello e prototipo della santità cristiana.
Se la bellezza della creazione è, secondo Sant’Agostino, una «confessio» e invita a contemplare la bellezza alla sua fonte, il «Creatore del cielo e della terra, dell’universo visibile e invisibile», e se la bellezza delle opere d’arte ci svela qualcosa della bellezza nella sua figura, il Figlio che si è fatto carne, «il più bello dei figli dell’uomo», c’è una terza via fondamentale – la prima per importanza – che conduce alla scoperta della bellezza nell’icona della santità, opera dello Spirito che plasma la Chiesa ad immagine di Cristo, modello di perfezione: è, per il battezzato, la bellezza della testimonianza data mediante una vita trasformata nella grazia e, per la Chiesa, la bellezza della liturgia che dà modo di sperimentare Dio, vivo in mezzo al suo popolo, e che attira a Lui chi si lascia prendere nel suo abbraccio tutto di gioia e d’amore.
L’Ecclesia de caritate testimonia la bellezza di Cristo. Essa si manifesta come sua Sposa, abbellita dal suo Signore, mentre compie i suoi atti di carità e le sue scelte preferenziali, si impegna per la giustizia e l’edificazione della grande casa comune in cui ogni creatura è chiamata a porre la propria dimora, soprattutto i poveri: pure loro hanno diritto alla bellezza. Nello stesso tempo, questa testimonianza della bellezza attraverso la carità e l’impegno al servizio della giustizia e della pace, annuncia la speranza che non delude. Proporre agli uomini e alle donne di oggi la vera bellezza, rendere la Chiesa attenta ad annunciare sempre, opportunamente e inopportunamente, la bellezza che salva, che si sperimenta laddove l’eternità ha posto la sua tenda nel tempo, significa offrire ragioni di vita e di speranza a quelle e a quelli che ne sono privi o che rischiano di perderle. Una Chiesa testimone del senso ultimo della vita, fermento di fiducia nel cuore della storia umana, appare quindi come il popolo della bellezza che salva, perché essa anticipa nel tempo penultimo qualcosa della promessa bellezza di Dio tutto in tutti nell’ultimo tempo. La speranza, anticipazione militante dell’avvenire del mondo redento, promesso nel Figlio crocifisso e risorto, è annuncio della bellezza. Il mondo ne ha particolarmente bisogno.

A) In cammino verso la bellezza di Cristo. La singolare bellezza di Cristo, come modello di «vita veramente bella», si riflette nella santità di una vita trasformata dalla grazia. Molti, purtroppo, sentono il cristianesimo come sottomissione a dei comandamenti fatti di divieti e di limiti alla libertà personale. Il Papa Benedetto XVI lo ricordava durante un’intervista alla Radio Vaticana, il 14 agosto 2005, prima di partire per Colonia, per incontrare giovani provenienti da tutto il mondo riuniti per le Giornate Mondiali della Gioventù. E diceva tra l’altro: «Io, invece, vorrei far loro capire che essere sostenuti da un grande Amore e da una rivelazione non è un fardello: ciò dà delle ali ed è bello essere cristiani. Questa esperienza dà ampiezza… La gioia di essere cristiani: è bello ed è anche giusto credere»[31]. Dalla bellezza interiore e dalla profonda emozione provocata dall’incontro con la Bellezza in persona – pensiamo all’esperienza di Sant’Agostino – nasce la capacità di proporre eventi di bellezza in tutte le dimensioni dell’esistenza e dell’esperienza di fede.
La pastorale della Chiesa, per portare all’incontro col Cristo, trova nella presentazione della sua bellezza il mezzo per destare i cuori a tale scoperta. Nella sua Lettera agli artisti, il Papa Giovanni Paolo II metteva in rilievo la fecondità della novità dell’Incarnazione: «Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo» (n. 5). Questa bellezza, così particolare e unica, del «figlio dell’uomo» si rivela sia sul volto del «Bel Pastore» che su quello del Cristo trasfigurato sul Tabor e, nello stesso tempo, su Colui che ha perduto, sospeso alla Croce, ogni bellezza corporale: L’Uomo dei dolori. In particolare, il cristiano vede nella deformità del Servo sofferente, spogliato di ogni bellezza esteriore, la manifestazione dell’amore infinito di Dio che giunge sino a rivestirsi della bruttura del peccato per elevarci, al di là dei sensi, alla bellezza divina che supera ogni altra bellezza e mai si corrompe. L’icona del Crocifisso, dal volto sfigurato, racchiude in sé, per chi vuole contemplarlo, la misteriosa bellezza di Dio. È la Bellezza che si compie nel dolore, nel dono di sé senza alcun ritorno per sé. La Bellezza dell’amore, che è più forte del male e della morte

B) La bellezza luminosa di Cristo e il suo riflesso nella santità cristiana. Cristo Gesù è la perfetta rappresentazione della Gloria del Padre. Egli è «Il più bello dei figli dell’uomo», perché possiede la pienezza della Grazia mediante la quale Dio libera l’uomo dal peccato, lo strappa alle tenebre del male e lo restituisce alla sua innocenza originaria. In ogni luogo e in ogni epoca, una moltitudine di uomini e di donne si è lasciata afferrare da questa bellezza per dedicarsi ad essa. Papa Benedetto XVI si esprimeva così durante la prima canonizzazione del suo pontificato e la messa di chiusura della XI Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia: «Il santo è colui che è talmente affascinato dalla bellezza di Dio e dalla sua perfetta verità da esserne progressivamente trasformato. Per questa bellezza e verità è pronto a rinunciare a tutto, anche a se stesso» (23 ottobre 2005).
Se la santità cristiana si configura alla bellezza del Figlio, l’Immacolata Concezione è la più perfetta illustrazione di questa «opera di bellezza». La Vergine Maria e i santi sono i riflessi luminosi e i testimoni attraenti della bellezza singolare di Cristo, bellezza dell’amore infinito di Dio che si dà e si comunica agli uomini. Essi riflettono, ciascuno a suo modo, come i prismi del cristallo, le sfaccettature del diamante, i contorni dell’arcobaleno, la luce e la bellezza originaria del Dio d’amore. La santità degli uomini è partecipazione alla santità di Dio e, quindi, alla sua bellezza; questa, accolta pienamente nel cuore e nella mente, illumina e guida la vita degli uomini e le loro azioni quotidiane.
La bellezza della testimonianza cristiana esprime la bellezza del cristianesimo e, per di più, la rende visibile. «Come possiamo essere credibili nel nostro annuncio di una “buona notizia”, se la nostra vita non riesce a manifestare anche la “bellezza”del vivere?». Dall’incontro di fede con Cristo nascono così, in un dinamismo interiore sostenuto dalla Grazia, la santità dei discepoli e la loro capacità di rendere «bella e buona» la loro vita e quella del loro prossimo. Non è una bellezza esteriore e superficiale, tutta di facciata, ma una bellezza interiore che si delinea sotto l’azione dello Spirito Santo. Essa risplende davanti agli uomini: nessuno può nascondere ciò che è parte essenziale del proprio essere.
Era, questo, l’appello di Giovanni Paolo II ai consacrati, nell’Esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata: «Ma è soprattutto a voi, donne e uomini consacrati, che al termine di questa Esortazione rivolgo il mio appello fiducioso: vivete pienamente la vostra dedizione a Dio, per non lasciar mancare a questo mondo un raggio della divina bellezza che illumini il cammino dell’esistenza umana. I cristiani, immersi nelle occupazioni e nelle preoccupazioni di questo mondo, ma chiamati anch’essi alla santità, hanno bisogno di trovare in voi cuori purificati che nella fede “vedono” Dio, persone docili all’azione dello Spirito Santo che camminano spedite nella fedeltà al carisma della chiamata e della missione» (n. 109). Dove risplende la carità, lì si manifesta la bellezza che salva, lì è resa gloria al Padre, lì cresce l’unità dei discepoli di Nostro Signore beneamato.
Pavel Florenskij, cantore russo della bellezza, martire del XX secolo, così commenta un passo del Vangelo di San Matteo (5, 16): «I vostri “atti buoni” non vuole affatto dire “atti buoni” in senso filantropico e moralistico: tà kalà erga vuol dire “atti belli”, rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale – soprattutto, un volto luminoso, bello, di una bellezza per cui si espande all’esterno “l’interna luce” dell’uomo, e allora vinti dall’irresistibilità di questa luce, gli uomini lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora»[32]. Pertanto, la vita cristiana è chiamata a diventare, con la forza della Grazia donata dal Cristo risorto, un evento di bellezza capace di suscitare ammirazione, dare origine alla riflessione e incitare alla conversione. L’incontro con Cristo e con i suoi discepoli, in particolare con Maria sua madre e con i santi, suoi testimoni, deve poter sempre diventare, in tutte le circostanze, un evento di bellezza, un momento di gioia, scoperta di una nuova dimensione dell’esistenza, una esortazione a rimettersi in cammino verso la Patria Celeste e di godere della visione della «Verità tutta intera», della bellezza dell’Amore di Dio: la bellezza è splendore della Verità e fioritura dell’Amore.

C) La bellezza della liturgia. La bellezza dell’amore di Cristo viene ogni giorno incontro a noi, non soltanto attraverso l’esempio dei santi, ma anche nella sacra liturgia, soprattutto nella celebrazione dell’Eucaristia in cui il Mistero si fa presente e illumina di senso e di bellezza tutta la nostra esistenza. E’ lo straordinario mezzo col quale Nostro Signore, morto e risorto, ci trasmette la sua vita, ci unisce al suo Corpo come sue membra vive e, in tal modo, ci rende partecipi della sua bellezza.
Florenskij descrive la bellezza della liturgia, simbolo dei simboli del mondo, come ciò che permette la trasformazione del tempo e dello spazio «nel tempio santo, misterioso, che brilla di una bellezza celeste».
In una conferenza al XXIII Congresso eucaristico nazionale italiano, il Cardinale Ratzinger riprendeva, come introduzione, la vecchia leggenda relativa alle origini del cristianesimo in Russia: il Principe Vladimiro di Kiev si sarebbe deciso ad aderire alla Chiesa Ortodossa di Costantinopoli dopo aver sentito gli emissari che aveva mandato a Costantinopoli, dove avevano assistito ad una solenne liturgia nella basilica di Santa Sofia. Essi dissero al Principe: «Non sappiamo se siamo stati in cielo o sulla terra… abbiamo sperimentato che là Dio abita fra gli uomini». E il Cardinale teologo traeva da questo racconto il suo fondo di verità: «Infatti la forza interiore della liturgia ha avuto senza dubbio un ruolo essenziale nella diffusione del cristianesimo… Ciò che convinse gli inviati del principe russo della verità della fede celebrata nella liturgia ortodossa non fu una specie di argomentazione missionaria, le cui motivazioni sarebbero apparse loro più illuminanti di quelle delle altre religioni. Ciò che li colpì fu invece il mistero come tale, che proprio andando al di là della discussione fece brillare alla ragione la potenza della verità»[33]. Come non sottolineare l’importanza dell’arte dell’icona, meravigliosa eredità dell’Oriente cristiano, che consente di sperimentare ancora oggi qualche cosa della liturgia della Chiesa indivisa: il suo linguaggio di una grande ricchezza e così profondo affonda le sue radici nell’esperienza della Chiesa indivisa, dalle catacombe romane ai mosaici di Roma e di Ravenna come di Bisanzio.
Per il credente, la bellezza trascende l’estetica. Essa consente il passaggio dal «per sé» al «maggiore di sé». La liturgia non è bella, e dunque vera, se non disinteressata, priva di ogni altro motivo che non sia quello della celebrazione di Dio, per Lui, per mezzo di Lui, con Lui e in Lui. Essa è appunto «disinteressata»: si tratta «di stare davanti a Dio e di dirigere il proprio sguardo su di lui, che illumina di luce divina ciò che avviene». È in questa austera semplicità che essa diventa missionaria, vale a dire capace di testimoniare, agli osservatori che si lasciano catturare nella sua dinamica, la realtà invisibile che essa dà la possibilità di assaporare.
Il poeta e drammaturgo francese Paul Claudel testimonia l’intima forza della liturgia quando narra della sua conversione, durante il canto dei Vespri, il Magnificat di Natale a Notre-Dame di Parigi: «Ed è allora che si verificò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato ed io credetti. Io credetti, con una tale forza di adesione, con una tale elevazione di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, con una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio, che, in seguito, né i libri, né i ragionamenti, né le circostanze di una vita agitata, hanno potuto scuotere la mia fede, né, a dire il vero, intaccarla» [34].
La bellezza della liturgia, momento essenziale dell’esperienza di fede e del cammino verso una fede adulta, non può ridursi alla sola bellezza formale. Essa è, anzitutto, la bellezza profonda dell’incontro col mistero di Dio, presente in mezzo agli uomini tramite suo Figlio, «Il più bello tra i figli dell’uomo (Ps. 45, 2)», che rinnova continuamente per noi il suo sacrificio d’amore. Essa esprime la bellezza della comunione con Lui e con i nostri fratelli, la bellezza di un’armonia che si traduce in gesti, simboli, parole, immagini e melodie che toccano il cuore e lo spirito e suscitano l’incanto e il desiderio di incontrare il Signore risorto, Lui che è la «Porta della Bellezza».
La superficialità, e talvolta perfino la banalità, addirittura la negligenza di alcune celebrazioni liturgiche non solo non aiutano il credente a progredire nel suo cammino di fede, ma soprattutto offendono coloro che ritornano alle celebrazioni cristiane e, in particolare, all’Eucaristia domenicale. In questi ultimi decenni, alcuni sono arrivati a dare eccessiva importanza alla dimensione pedagogica e alla volontà di rendere la liturgia comprensibile perfino agli osservatori esterni, e hanno minimizzato la sua funzione principale: introdurci con tutto il nostro essere in un mistero che ci supera totalmente. Celebrazione della fede nell’azione salvifica di Dio nel Suo Figlio Gesù, e in questo è missionaria. Essenzialmente rivolta verso Dio, essa è bella quando consente a tutta la bellezza del mistero d’amore e di comunione di manifestarsi [35]. La liturgia è bella quando è «gradita a Dio» e ci introduce nella gioia divina [36].

Proposte pastorali.
È necessario proporre il messaggio di Cristo in tutta la sua bellezza, in grado di attirare le menti e i cuori attraverso legami di amore, nel contempo, bisogna vivere e testimoniare la bellezza della comunione in un mondo spesso segnato dalla disarmonia e dalla divisione. Si tratta di trasformare in «avvenimenti di bellezza» tutti i gesti di carità quotidiana e l’insieme delle attività pastorali ordinarie delle chiese locali. La bellezza salvatrice di Cristo chiede di essere presentata in modo nuovo per essere accolta e contemplata non solamente da ogni credente, ma anche da coloro che si dichiarano poco coinvolti, e addirittura indifferenti. Si tratta soprattutto di sensibilizzare i pastori e i catecheti affinché le loro predicazioni e i loro insegnamenti conducano alla bellezza di Cristo. I cristiani sono chiamati a testimoniare la gioia di sapersi amati da Dio e la bellezza di una vita trasformata da questo amore che viene dall’Alto.
Per la chiusura del grande Giubileo dell’anno 2000, Giovanni Paolo II ha indirizzato a tutta la Chiesa la sua Lettera apostolica Novo millennio ineunte, nella quale invita espressamente a ripartire da Cristo e ad imparare a contemplare il suo volto. Da questa contemplazione nasce il desiderio, la necessità e l’urgenza di riscoprire il senso autentico del mistero e della liturgia cristiana, nella quale si vive concretamente l’incontro con il Signore morto e risorto [37].
Per rispondere a questo invito, numerosi vescovi hanno indirizzato ai loro fedeli delle Lettere pastorali sulla bellezza della salvezza e sul senso della celebrazione liturgica, sottolineando nel contempo la bellezza dell’incontro con Cristo, la domenica, giorno a Lui consacrato e che permette di fare una pausa nei ritmi frenetici delle nostre società[38]. D’altronde, nel corso degli ultimi decenni, e soprattutto a partire dal discorso di Paolo VI al VII Congresso Internazionale di Mariologia del 16 maggio 1975, la Via pulchritudinis è stata ampiamente percorsa in mariologia, con risultati positivi e promettenti [39].
E’ importante presentare in un linguaggio che parli e piaccia ai nostri contemporanei, utilizzando i mezzi più adatti, le preziose testimonianze date dalla Madre di Dio, dai martiri e dai santi, da tutti coloro che, in maniera particolarmente «attraente», originale e inventiva, hanno seguito il Cristo. Si fa molto, nel campo della catechesi, con fumetti, teatro, pubblicazioni, film, concerti e musicals per far scoprire figure straordinarie di santi come Francesco d’Assisi e José di Anchieta, Juan Diego e Teresa di Lisieux, Rosa da Lima e Bakhita, Kisito e Maria Goretti, Padre Kolbe e Madre Teresa, ecc., che, come constatiamo ancora oggi, esercitano un autentico fascino sui giovani. I loro esempi lo rammentano: ogni cristiano è un vero pellegrino sulla via della bellezza, della verità, della bontà, in cammino verso la Gerusalemme Celeste dove contempleremo la bellezza di Dio, in un’intensa relazione d’amore, nel «faccia a faccia». «Lì noi ci riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che sarà alla fine, senza fine»[40].
Una formazione appropriata aiuterà i fedeli a progredire verso la preghiera di adorazione e di lode per partecipare in verità ad una liturgia vissuta nella sua pienezza di bellezza che introduce al mistero di fede. Pertanto, è necessario ridare alla liturgia il suo vero «splendore» mediante la riscoperta del senso vero del mistero cristiano. È altresì necessario, allo stesso tempo, insegnare nuovamente ai fedeli a meravigliarsi di fronte all’opera che Dio compie nelle nostre vite, restituire alla liturgia il suo vero «splendore», tutta la sua dignità e la sua incontaminata bellezza, attraverso la riscoperta del significato autentico del mistero cristiano, e formare i fedeli al fine di renderli capaci di entrare nel significato e nella bellezza del mistero celebrato, e a viverlo in modo credibile.
La liturgia non è un facere dell’uomo, ma un’opera divina. È importante aiutare i fedeli a percepire che l’atto di culto non è il frutto di una «attività» - un «prodotto», un «merito», un «guadagno» -, ma l’espressione di un mistero, di qualcosa che non può essere interamente compreso ma chiede di essere accolto più che razionalizzato. Si tratta di un atto puramente libero da qualsiasi aspetto di efficienza. L’atteggiamento del credente nella liturgia è caratterizzato dalla sua capacità di ricevere, condizione del progresso nella vita spirituale. Un tale modo di porsi non è più spontaneo in una cultura in cui il razionalismo pretende di dirigere tutto, fino ai sentimenti più intimi.
Non è meno urgente favorire la creazione artistica per un’arte sacra idonea ad accompagnare e a sostenere la celebrazione dei misteri della fede, a ridare la loro bellezza agli edifici di culto e all’arredo liturgico. Così, le liturgie saranno, sicuramente, accoglienti, ma soprattutto in grado di comunicare il significato autentico della liturgia cristiana favorendo la piena partecipazione dei fedeli ai misteri, secondo l’auspicio espresso a più riprese dai Padri del Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia.
Certamente, le chiese devono essere esteticamente belle, ben decorate, le liturgie accompagnate da bei canti e da pezzi musicali di valore, le celebrazioni degne e le predicazioni curate, ma non è questo, in definitiva, che rappresenta la via pulchritudinis e che ci cambia. Queste non sono che le condizioni che facilitano l’agire della grazia di Dio. Si tratta, dunque, di educare i fedeli a non lasciare spazio alla sola dimensione estetica, per quanto suggestiva essa sia, e aiutarli a comprendere che la Liturgia è un atto divino che non si lascia condizionare da un ambiente, dal clima, neppure dalle rubriche, perché è mistero della fede celebrato nella chiesa.


CONCLUSIONE

Proporre la via pulchritudinis come cammino di evangelizzazione e di dialogo, vuol dire partire da un interrogativo urgente, talvolta latente, ma sempre presente nel cuore dell’uomo: «Che cos’è la bellezza?», per condurre «tutti gli uomini di buona volontà, nei quali, in modo invisibile agisce la grazia», verso «l’uomo perfetto» che è «immagine del Dio invisibile» (Col. 1,15)[41].
Questa domanda risale all’alba dei tempi, come se l’uomo ricercasse disperatamente, dopo la caduta originale, quel mondo di bellezza ormai fuori dalla sua portata. Essa attraversa la storia sotto molteplici forme e il gran numero di opere, frutto di bellezza in tutte le civiltà, non riesce ad estinguerne la sete.
Pilato pone a Cristo la questione della verità. Cristo non risponde, o meglio la sua risposta è il silenzio: quella verità non si dice, ma si congiunge senza parole alla parte più intima dell’essere. Gesù si era rivelato ai suoi discepoli: «Io sono la Via, la Verità e la Vita». Adesso tace. Poco dopo mostrerà la via, cammino di verità, che porta alla Croce, mistero di sapienza. Pilato non capisce, ma misteriosamente, egli stesso dà la risposta alla sua domanda: «Che cos’è la verità?». Davanti al popolo esclama: «Ecco l’uomo», cioè Cristo, che è la verità.
Se la bellezza è lo splendore della verità, allora il nostro interrogativo si ricollega a quello di Pilato e la risposta è identica: Gesù stesso è la Bellezza. Egli si manifesta dal Tabor alla Croce per illuminare il mistero dell’uomo, sfigurato dal peccato, ma purificato e ricreato dall’Amore redentore. Gesù non è una via tra le altre, una verità tra le altre, una bellezza tra le altre. Egli non propone una via tra le altre: Egli è la via viva che conduce alla verità viva che dà la vita. Bellezza suprema, splendore di Verità, Gesù è la fonte di ogni bellezza, perché, Verbo di Dio fatto carne, è la manifestazione del Padre: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14, 9).
Il vertice, l’archetipo della bellezza si manifesta nel volto del Figlio dell’uomo crocifisso sulla Croce dei dolori, rivelazione dell’amore infinito di Dio che, nella sua misericordia per le proprie creature, ripristina la bellezza perduta con la colpa originale. «La bellezza salverà il mondo», perché tale bellezza è Cristo, la sola bellezza che sfida il male e trionfa sulla morte. Per amore, il «più bello dei figli dell’uomo» si è fatto «uomo dei dolori», «senza apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is 53, 2), e in tal modo ha reso all’uomo, ad ogni uomo, pienamente la sua bellezza, la sua dignità e la sua vera grandezza. In Cristo, e solo in Lui, la nostra via Crucis si trasforma nella sua in via lucis e in via pulchritudinis.
La Chiesa del terzo millennio ricerca continuamente questa bellezza nell’incontro con il suo Signore e, con Lui, nel dialogo d’amore degli uomini e delle donne del nostro tempo. Nel cuore delle culture, per rispondere alle loro angosce, alle loro gioie e alle loro speranze, essa non cessa di affermare con il Papa Benedetto XVI: «Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera»[42].



[1] Cf. Culture e fede, Città del Vaticano, n° 2, 2002.
[2] Cf. il Documento Dov’è il tuo Dio?, pubblicato in diverse lingue: PAUL POUPARD – PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA, Dov’è il tuo Dio? Fede cristiana, non credenza e indifferenza religiosa, in « Religioni e sette nel mondo », 26, 2003-2004; Où est-il ton Dieu ? La foi chrétienne au défi de l’indifférence religieuse, Salvator, Paris 2004 ; Where Is Your God? Responding to the Challenge of Unbelief and Religious Indifference Today – Dónde está tu Dios? La fe cristiana ante la increencia religiosa, Chicago 2004; Dónde está tu Dios? La fe cristiana ante la increencia religiosa, Valencia 2005; Gdje je tvoj Bog? Kršćanska vjera pred izazovom vjerske ravnodušnosti, Sarajevo 2005.
[3] Cf. R. REMOND, Le Christianisme en accusation, Paris 2000 ; Le nouvel antichristianisme, ibid, 2005.
[4] Oltre ai testi della Plenaria 2004, cf. il Documento Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul «New Age», Città del Vaticano 2003; Jésus, porteur d’eau vive. Une réflexion chrétienne sur le « Nouvel Age»; Jesus Christ the Bearer of the Water of Life. A Christian reflection on the «New Age»; Jesucristo portador del agua de la vida. Una reflexión cristiana sobre la “Nueva Era”; Jesus Christus des Spender lebendigen Wassers. Überlegungen zu New Age aus christlicher Sicht.
[5] BENEDETTO XVI, Omelia durante la S. Messa di inizio del Pontificato, 24 aprile 2005.
[6] GIOVANNI PAOLO II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, n. 3.
[7] GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, 14 settembre 1998, n. 103.
[8] Secondo San TOMMASO D’AQUINO, la claritas è una delle tre condizioni della bellezza. Nelle questioni sulla Trinità della Summa Theologiae, egli si interroga sugli attributi propri di ogni persona divina e collega la bellezza alla persona del Figlio:«Pulchritudo habet similitudinem cum propriis Filii – La bellezza presenta una certa somiglianza con ciò che è proprio del Figlio». Ed indica le tre condizioni della bellezza per applicarle a Cristo: la integritas sive perfectio, la proportio sive consonantia e la claritas (Ia, qu. 39, art. 8).
[9] Per una riflessione sulla filosofia del bello e sull’attività artistica, vedere M.-D. PHILIPPE, L’activité artistique. Philosophie du faire, 2 vol., Paris 1969-1970, con un’importante bibliografia. Per una riflessione teologica, vedere anche B. FORTE, La porta della Bellezza. Per un’estetica teologica, Brescia 1999; Inquietudini della trascendenza, cap. 3: “La Bellezza”, Brescia 2005, p. 45-55; ID., La bellezza di Dio. Scritti e discorsi 2004-2005, Cinisello Balsamo (Milano) 2006.
[10] GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, op. cit., n. 83. E aggiunge: «Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione».
[11] SANT’AGOSTINO, Le Confessioni, X, 27.
[12] H. Urs VON BALTHASAR, Gloria. Gli aspetti estetici della Rivelazione. I, Milano 1975, 10-11: «La nostra parola iniziale si chiama bellezza… La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione e che tuttavia, tolta come una maschera dal proprio viso, mette a nudo i tratti che minacciano di diventare incomprensibili agli uomini…Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, neanche di amare…
In un mondo senza bellezza – anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso – in un mondo che non è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto… In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica».
[13] Lezione per il Premio Nobel, in Opere, t. IX, YMCA Press, Vermont-Paris 1981, p. 9.
[14] Padre TUROLDO, cantore della bellezza, riporta questa significativa affermazione di D. BARSOTTI: «Il mistero della bellezza! Finché la verità e il bene non sono divenuti bellezza, la verità e il bene sembrano rimanere in qualche modo estranei all’uomo, s’impongono a lui dall’esterno; egli vi aderisce, ma non li possiede; esigono da lui una obbedienza che in qualche modo lo mortifica». Quindi trae una chiara conclusione: «Il vero e il bello non sono sufficienti a creare una cultura, perché non sembrano sufficienti da soli a creare una comunione, una unità di vita tra gli uomini. E poiché la cultura è espressione stessa di uno sviluppo individuale, di una certa perfezione raggiunta, ne viene che la cultura massimamente sembra esprimersi nella bellezza. La bellezza è il fine di tutte le cose» (“Bellezza” in Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline, 1985, p. 222-223).
[15] Il Papa GIOVANNI PAOLO II ha ripreso questa essenziale affermazione nella Lettera agli Artisti, n. 11.
[16] Cf. anche San GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico spirituale, 5: “Mil gracias derramando / Pasó por estos sotos con presura / Y, yéndolos mirando, / Con sola su figura, / Vestidos los dejó de su hermosura” – “Grazie a mille spargendo / Passò per questi luoghi con sveltezza, e soltanto effondendo / lo sguardo con mitezza / li lasciò rivestiti di bellezza”, e G.M. HOPKINS: “The world is charged with the grandeur of God” – “Il mondo è caricato della grandezza di Dio”.
[17] Aristotele affermava che «in tutte le cose della natura c’è qualcosa di meraviglioso» (Le parti degli animali, I, 5). Lo studio della natura e del cosmo ha giocato un ruolo essenziale nella filosofia, a cominciare da quella dell’antica Grecia, ed anche in teologia la cosmologia ha costituito un elemento fondamentale per capire l’opera di Dio e la sua azione nella storia. Pensiamo, ad esempio, alla visione dello Pseudo-Dionigi Areopagita, tante volte ripresa nella teologia e nella mistica cristiana, come anche alla cosmologia aristotelica che si innesta nel pensiero tomista, andando a costituire una delle cosiddette «prove dell’esistenza di Dio». Anche Emmanuel Kant riconosceva la bellezza del cosmo e la sua capacità di provocare stupore, quando affermava, nella Critica della ragion pratica:«Due cose riempiono l’animo di crescente meraviglia e timore(…): il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».
[18] Cf. Giovanni Scoto Eriugena, De divisione naturae 1.3, e San Bonaventura,, Collationes in Hexaemeron II. 27.
[19] Cf. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA, Per una pastorale della cultura, 1999, n. 35.
[20] Cf. The Human Search for Truth: Philosophy, Science, Theology. International Conference on Science and Faith. Vatican City, 23-25 May 2000, Saint Joseph’s University Press, Philadelphia, USA, 2002; tr. it. L’uomo alla ricerca della verità. Filosofia, scienza, teologia: prospettive per il terzo millennio. Conferenza internazionale su scienza e fede, Città del Vaticano, 23-25 maggio 2000, Vita e Pensiero, Milano, 2005.
[21] SAN BONAVENTURA, Legenda Maior, IX.
[22] GIOVANNI PAOLO II, Lettera agli artisti, n. 12-13.
[23] Cf. ASSOCIAZIONE ARTE E SPIRITUALITÀ, Sulla via della Bellezza. Paolo VI e gli artisti, quaderno n. 3, Brescia 2003, p. 71-76.
[24] Cf. D. PONNAU, in Forme et sens. Colloque de formation à la dimension religieuse du patrimoine culturel, École du Louvre, Paris, 1997, p. 20.
[25] Catechismo della Chiesa cattolica. Compendio. Introduzione. Libreria Editrice Vaticana, 2005.
[26] GIOVANNI PAOLO II, Lettera agli artisti, op. cit., n. 12 e 8.
[27] Sant’Ireneo, Adversus haereses, IV, 20.7.
[28] Cf. n. 17: Arte e tempo libero e soprattutto il n. 36: L’arte e gli artisti.
[29] Cf. La Lettera circolare della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, su La formazione ai beni culturali nei seminari, 15 ottobre 1992; la Nota pastorale della Conferenza Episcopale Regionale di Toscana: La vita si è fatta visibile. La comunicazione della fede attraverso l’Arte, del 23 febbraio 1997, e quella dell’Ufficio nazionale per i Beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo: Spirito Creatore, del 30 novembre 1997.
[30] Si moltiplicano i corsi di formazione nelle Università cattoliche, come alla Facoltà di Storia della Chiesa e dei Beni culturali della Pontificia Università Gregoriana o all’Istituto di Arte Sacra e di Musica liturgica dell’Istitut Catholique di Parigi; le riviste di ispirazione cristiana affrontano sempre più spesso questo argomento, come ad esempio Arte Cristiana di Milano, Humanitas di Santiago del Cile; aumenta il numero dei Musei diocesani, ideati come veri e propri Centri culturali cattolici. Pubblicazioni recenti trattano della via pulchritudinis e aiutano il lettore a familiarizzare col linguaggio dell’arte per una meditazione spirituale: cf. Maria Gloria Riva, Nell’arte lo stupore di una Presenza, San Paolo, Milano, 2004.
[31] E. BIANCHI fa eco a queste parole quando esorta a «saper annunciare la differenza cristiana» come una vera risposta all’indifferenza: «O il cristianesimo è filocalia, amore della bellezza, via pulchritudinis, via della bellezza, o non è! E se è via della bellezza, saprà attirare anche gli altri su quel cammino che conduce alla vita più forte della morte, saprà essere sequentia sancti Evangelii per gli uomini e le donne del nostro tempo». In Perché e come evangelizzare di fronte all’indifferentismo, in “Vita e pensiero” 2, 2005, p. 92-93.
[32] Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano 1999, 50.
[33] Card. J. RATZINGER, Eucaristia come genesi della missione. Conférenza magistrale al XXIII Congresso Eucaristico di Bologna, 20-28 settembre 1997 in “Il Regno” 1 nov. 1997, n° 19, p. 588-589.
[34] Cit. in F. CASTELLI, Volti di Gesù nella letteratura moderna, II, Paoline 1990, p. 124.
[35] Cf. T. VERDON, Vedere il mistero. Il genio artistico della liturgia cattolica, Mondadori 2003.
[36] H. Urs VON BALTHASAR ha percepito profondamente «in un paradosso insolubile il mistero della bellezza. Sempre, infatti, ciò che si manifesta è, nella sua stessa manifestazione, ciò che non si manifesta… Nella superficie visibile della manifestazione si coglie la profondità che non si manifesta, e ciò soltanto dà al fenomeno del bello il suo carattere affascinante e soggiogante, e ciò soltanto assicura all’essente la sua verità e la sua bontà». Gloria, op. cit., p. 373.
[37] Cf. anche l’Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa, del 28 giugno 2003, n. 66-73; l’Enciclica Ecclesia de Eucaristia, del 17 aprile 2003; la Lettera Apostolica Mane nobiscum, Domine, del 17 ottobre 2004. G. VECERRICA, Diamo forma alla bellezza della vita cristiana. Lettera pastorale, Fabriano 2006.
[38] Cf., per esempio, C. M. MARTINI, Quale bellezza salverà il mondo? Lettera pastorale 1999-2000, Milano 1999; B. FORTE, Perché andare a messa la domenica. L’Eucaristia e la bellezza di Dio, Cinisello Balsamo 2004.
[39] Cf. PONTIFICIA ACCADEMIA MARIANA INTERNAZIONALE, La madre del Signore. Memoria, presenza, speranza, Città del Vaticano, 2000, p. 40-42.
[40] SANT’AGOSTINO, La Città di Dio, XXII, 30, 5.
[41] CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, 22.
[42] BENEDETTO XVI, Omelia durante la S.. Messa per l’inizio del Pontificato, 24 aprile 2005.