lunedì 12 aprile 2010

EDITORIALE








IL VIAGGIO
in principio furono Adamo ed Eva .Scacciati dal Paradiso terrestre,furono loto i primi viaggiatori della storia,e noi che ne siamo la progenie,non facciamo altro che seguirne l’esempio.Con la differenza:il viaggio,per noi moderni non rappresenta più una punizione,ma una liberazione.Oggi nessuno ci allontana dalle nostre case;siamo noi a desiderare la partenza,il distacco dalla vita quotidiana,siamo noi ad affollare le agenzie turistiche.Ma sappiamo viaggiare?
Diceva Albert Camus : ”se ora sento di essere arrivato a una svolta della vita,non è per ciò che ho guadagnato ,ma per ciò che o perduto “.Ebbene se vogliamo che il nostro prossimo viaggio si un vero viaggio sia un vero viaggio fecondo
di ben precisi benefici,dobbiamo anzitutto imparare a perdere noi stessi.
E’questo il consiglio che ci è stato lasciato dai grandi viaggiatori della storia: lo stesso consiglio, lo stesso messaggio ripetuto nel corso dei secoli in migliaia diari resoconti ,testimonianze di viaggio,
Nel 1670 un precettore inglese.Richard Lassel ,ammoniva:”al momento dell’imbarco fate che il viaggiatore abbia cura di non portarsi in viaggio se stesso”.e ben prima di lui,nella Roma di Nerone,il filosofo Seneca avvertiva che”molti uomini che non ritornano migliori di come sono partiti si portano se stessi nel viaggio”. Certo qualcuno potrebbe replicare che ogni individuo
partendo,vuole lasciarsi alle spalle i problemi,gli affanni che lo tormentano.
Ma perdersi non significa fuggire i problemi le responsabilità.
Perdersi significa essere capaci di abbandonare le certezze che abbiamo lentamente costruito,i punti di riferimento che definiscano la nostra esistenza;vuol dire saper rinunciare alla nostra visione del mondo,alle sicurezze che abbiamo conquistato,a quel contesto sociale che da corpo alla nostra identità.
Perdersi significa essere pronti a mettere in discussione noi stessi,ad abbandonare la”casa”di abitudini che ci rassicurano, per aprire la nostra anima all’incontro del nuovo.tutto ciò costa fatica e per certi aspetti è anche
contraddittorio: la nostra vita,infatti segnata,è segnata proprio dal tentativo
di trovare stabilità,punti fermi,certezze,un luogo dove mettere radici,che consente di mantenere salda la nostra identità.Lo aveva ben compreso padre Navarette,un francescano del XVII secolo,amante dei viaggi,quando osservava che la”natura umana si contraddice non poco lasciando la propria casa”. Eppure,solo spogliandoci,solo perdendo noi stessi,saremo in grado di vivere l’autentica esperienza del viaggio e di poter cogliere i benefici.Diceva ancora Camus:”Ciò che da valore al viaggio è la paura.E il fatto che siamo
tanto lontano dal nostro paese…siamo colti da una paura vaga e dal desiderio di tornare indietro,sotto la protezione delle nostre vecchie abitudini.
Questo è il più ovvio beneficio del viaggio.In quel momento siamo ansiosi,ma anche porosi e anche a un tocco lievissimo ci fa fremere fin nella profondità dell’essere .(…) Il viaggio è come una scienza più grande e greve,ci riporta a noi stessi.
“.Dunque, il viaggio quello vero consente il ritorno a se stessi,al sé più profondo e originario.
La perdita di sé per quanto paradossale possa apparire,consente di ritrovarsi.Ma ,al contempo,consente di vivere una straordinaria esperienza di rinnovamento:
Charles Darvin nella sua aurobiografia faceva osservare di”aver cambiato la forma della sua testa”al ritorno da un viaggio)e non solo in senso metaforico).John Knoweles,traversando il Mar Adriatico,avvertiva una sensazione di rinnovamento,anche dolce,una sensazione di mattino,e addirittura di innocenza “.Il “rinnovamento”di cui parlano questi altri viaggiatori è,anzitutto,l’acquisizione della capacità di leggere con occhi diversi quello che abbiamo lasciato.Durante il viaggio, la casa lontana acquista sembianze differenti e si finisce col pedere quel senso di assolutezza che gravava sui nostri atti,comportamenti,parametri di giudizio. Il ritorno a casa consente di vedere con occhi innocenti ciò che si era lasciato
e di comprenderne,allo stesso tempo tutti i limiti.
Racconta Jack Kerouac,il viaggiatore statunitense assunto a simbolo del viaggio on the road:”D’un tratto mi trovai in Time Square…,e proprio nel mezzo di un’ora di punta,a guardare con i miei occhi resi innocenti dalla strada l’assoluta pazzia e il fantastico andirivieni di New York,con i suoi
milioni e milioni di uomini che si prendono a gomitate all’infinito fra loro per un dollaro,il pazzo sogno:afferrare,prendere,dare,sospirare,morire,solo per poter essere sepolti in quell’orribile necropoli dietro Long Island City”.Ma il “rinnovamento”di cui parlano i viaggiatori è anche l’acquisizione di una saggezza nuova,resa possibile dalle conoscenze e dalle esperienze fatte durante il viaggio.Questo concetto era già presente in epoca classica
Strambone lo aveva ben compreso,quando scriveva che “gli eroi più saggi furono quelli che visitarono molti luoghi e vagarono per il mondo:i poeti onorano chi ha visto le città e conosciuto la mente degli uomini.Fin da allora intuì che il viaggio era in grado di generare una forma di “ragione”,un “punto di vista “del tutto singolari,in quanto basati sull’osservazione del mondo e dei suoi viari contesti ed ambienti.
Ma la conoscenza di cui già parlava Strambone non è solo quella dei luoghi e delle cose,è anche conoscenza degli uomini,di uomini altri,diversi ed estranei al nostro abituale universo di relazione.Per Paul Bowlwes,autore de il tè nel deserto,questo elemento di diversità ha sempre costituito la ragione prima dei suoi numerosi viaggi.Scrive infatti: “Penso che per un viaggiatore sia naturale cercare la diversità,e che sia l’elemento umani ciò che lo rende più consapevole della differenza .Se la gente e il modo di vivere fossero uguali dappertutto non avrebbe molto senso spostarsi da un posto all’altro”. Sono proprio questi individui diversi,altri,che durante il viaggio,ci restituiscono una immagine di noi che non conoscevamo.Il viaggio, quello vero,offre la possibilità di farsi conoscere per quello che si è,indipendentemente da attributi precedenti ;in questo senso,ogni partenza si accompa- gna anche a una nuova visione della propria identità sociale,in un gioco di continui rimandi con lo sguardo degli altri.
L’esperienza della perdita,tipica del vero viaggio,è dunque feconda di benefici.
Eppure oggi ,nell’era del turismo di massa ,non tutti vogliono goderne.Li possiamo riconoscere facilmente questi fintiti viaggiatori: partono con le loro sicurezze e tornano con
qualche souvenir in più.Null’altro .Con gli occhi cercano ciò che hanno lasciato.Ovunque si trovino,tentano di ricostruire la loro”casa”le loro rassicuranti abitudini .A volte basta poco:
un piatto di spaghetti,un cameriere che parla italiano,una partita di calcio captata con una antenna parabolica .
A volte non serve nulla ,tanto la “casa”è radicata dentro di loro ,tanto sono presi da un”io”che non si lascia neppure scalfire dal nuovo.Macinano chilometri ma non viaggiano,guardano ma non vedono,sentono ma non ascoltano Magari tornano carichi di fotografie con cui stupire gli amici,ma loro no,non si sono mai stupiti,non hanno mai osato perdersi.
In realtà non si sono allontanati un momento da casa .E’ ciò che hanno evitato,con tanta ostinazione,non sono soltanto le strade del mondo ma anche quelle della loro anima
in realtà non si sono allontanati un momento da casa .E’ ciò che hanno evitato,con tanta ostinazione,,non sono soltanto le strade del mondo ma anche quelle della loro anima .

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